Proteste contro la multinazionale Monsanto e il transgenico in tutta l’America Latina

Traduzione di Raffaele Piras

 

I manifestanti sfilavano al grido di “Queremos frijoles, queremos maíz, queremos a Monsanto fuera del país”

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Centinaia di migliaia di persone in America Latina hanno partecipato a un’azione mondiale contro l’impresa transnazionale Monsanto rifiutando il commercio di prodotti transgenici.

In generale, in tutto il mondo, milioni di persone hanno sfilato in più di 500 città contro il tentativo di introdurre semi transgenici in diversi paesi.

In Messico vari collettivi e organizzazioni sono scesi in strada esigendo che la transnazionale Monsanto “salga del país” (esca dal paese, ndr). I manifestanti sfilavano al grido di “Queremos frijoles, queremos maíz, queremos a Monsanto fuera del país”.

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Anche nella città di La Plata, Argentina, molti giovani hanno protestato contro Monsanto. Con cartelli e striscioni hanno raggiunto il municipio della città.

Nel frattempo, a Santiago de Chile, circa mille persone si sono mobilitate per chiedere il ritiro di Monsanto e la fine del commercio di alimenti transgenici. La manifestazione ha chiesto al governo della presidente Michelle Bachelet l’espulsione dell’impresa e la fine della produzione dei semi ogm.

Secondo i movimenti che hanno protestato, infatti, il 90% degli alimenti prodotti è geneticamente modificato. Gli attivisti che rifiutano questo tipo di alimenti affermano che tale modello di produzione porta a malattie e morte, altera le proprietà del suolo e rade al suolo boschi e compromette la biodiversità. Hanno sottolineato poi la relazione tra i transgenici e la morte di api e altri insetti impollinatori, lo spostamento forzato di comunità originarie, la desertificazione, siccità e inondazioni.

Fonte: http://www.agenciapulsar.org/latinoamerica/realizan-marchas-contra-empresa-monsanto-y-los-transgenicos-en-toda-latinoamerica/

Aereo carico di droga proveniente dal Venezuela precipita sulla coste colombiane

Per il mercoledì delle Narrazioni tossiche: no, non è Roberto Saviano in missione per il New York Times, ma l’articolo a firma Associated Press propone la stessa storia amaramente apprezzata sui media nazionali: alti funzionari boliavariani accusati di impeachment col narcotraffico.

Venezuela has become a key transit country for cocaine produced in Colombia, with several government officials and high-level members of the military sanctioned by the United States

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Raytheon Hawker 800A (da wikipedia)

BOGOTA, Colombia – Un piccolo aereo, in volo dal Venezuela con più di una tonnellata di cocaina a bordo, è precipitato nei Caraibi lo scorso mercoledì dopo essere stato inseguito dall’aviazione colombiana.

Questo è il solo punto di accordo tra le autorità dei due paesi, ciascuno dei quali si prende il merito mentre offre versioni discordanti su come sia stata sventata la fuga.

Un video realizzato dall’aviazione colombiana mostra un Hawker 800 intercettato dai caccia dopo essere entrato nello spazio aereo del paese intorno alle 2:30 del mattino. Ufficiali riferiscono che il pilota tentava la fuga, ma si è schiantato sulle coste di Puerto Colombia a causa di un guasto di uno dei motori.

La guardia costiera ha trovato il corpo del pilota, la cui nazionalità non è stata accertata, in mezzo ai rottami con 1,2 tonnellate di cocaina, imbustata in pacchetti da un chilogrammo.

Ore dopo, il ministro della difesa venezuelano Vladimir Padrino è apparso sulla rete televisiva nazionale per contestare la versione colombiana.

Padrino ha dichiarato che l’aereo è atterrato su una pista clandestina nello stato di Apure, ovest del paese, appena dopo la mezzanotte. Quando alcune ore dopo l’aereo ha ripreso il decollo, jet venezuelani hanno ordinato al pilota di atterrare, ma al suo rifiuto gli spari hanno colpito il velivolo.

Il ministro ha detto che le autorità venezuelane hanno perso le tracce dell’aereo sospetto subito dopo il passaggio della frontiera, procedendo ad allertare le controparti colombiane.

Il Venezuela è diventato un paese chiave per il transito della cocaina prodotta in Colombia, con numerosi funzionari di governo e alti membri delle forse militari sanzionati dagli Stati uniti per, secondo quanto riportato, collusione con i narcotrafficanti. Ma molta della cocaina è trasportata a nord verso il Centro America su rotte che evitano lo spazio aereo colombiano, saldamente controllato in cooperazione con gli Usa.

Sin dal 2013, le autorità venezuelane dicono di aver abbattuto o neutralizzato 90 aeroplani che trasportavano più 180 tonnellate di cocaina.

Articolo originale:
http://www.nytimes.com/aponline/2015/05/20/world/americas/ap-lt-colombia-venezuela-drug-plane.html

“Se non sapremo creare un grande movimento planetario in difesa della rivoluzione venezuelana, non ci basteranno i giorni per pentirci”

di Geraldina Colotti per CaracasChiAma

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Gli editoriali di El Pais, in Spagna, definiscono riflessioni da “trogloditi” quelle che richiamano una similitudine tra gli attacchi che hanno portato alla caduta della “primavera allendista”, in Cile, e quelli che vorrebbero stroncare il socialismo in Venezuela.

Certo, lo scenario non è più quello del grande Novecento: da tempo i “Pinochet” hanno indossato il colletto bianco e, nella memoria artefatta dai grandi media, il colpo di stato in Cile dell’11 settembre del 1973 è stato soppiantato dal fragore che ha distrutto le Torri gemelle Usa, l’11 settembre del 2001. Soprattutto, non c’è più un campo socialista da abbattere. E anche il Vaticano sembra aver messo di lato la grande crociata dal papa polacco.

Obama non è Nixon e Kerry non è Kissinger, ma il piano per “far urlare l’economia” venezuelana, fatte le debite proporzioni, richiama fortemente quello orchestrato da Nixon contro il governo di Allende e ordinato allora alla Cia.

Come hanno provato i documenti desecretati a Washington, dai sottopalchi del potere Usa, nel corso del 1972 venne organizzato ogni genere di sabotaggio, economico, ideologico e militare per far cadere Allende, forzando sulle debolezze del suo governo.

Alla morte di Hugo Chavez, i poteri forti hanno pensato che potevano averla vinta con Maduro. Hanno intensificato gli attacchi. Guerra economico-finanziaria, discredito internazionale e sanzioni, tentativi di provocare “rivoluzioni colorate” modello balcanico, grancassa mediatica alimentata dalla retorica sui “diritti umani”, sono gli aggiornamenti di vecchie tattiche per far cadere governi non graditi ad ogni costo.

Obama non è Reagan, ma è comunque ostaggio del complesso militare-industriale, vero padrone degli Usa: a dispetto del Nobel per la pace, di bombe ne ha buttate parecchie. E non si deve dimenticare che, in America Latina, il 28 giugno ricorrono i cinque anni dal colpo di stato contro l’allora presidente Manuel Zelaya: “colpevole” di essersi voluto avvicinare all’Alleanza bolivariana per il popoli della nostra America (Alba), ideata da Cuba e Venezuela.

Benché le sinistre di alternativa siano da allora cresciute in Honduras, la truffa delle ultime elezioni mostra l’intenzione granitica dei poteri diretti da Washington di non farsi sfuggire un altro pezzo della torta centroamericana.

E vale ricordare anche il “golpe istituzionale” contro l’allora presidente del Paraguay Fernando Lugo, il 22 giugno del 2012.

Per via delle vicende mediorientali, gli Usa hanno parzialmente distolto l’attenzione dall’America latina. Ma ora hanno in corso il mega progetto di accordi commerciali e regionali, contemplato all’interno del Ttip con la Ue, e dell’Alleanza del Pacifico (Tpp) con i principali 12 paesi del bacino del Pacifico.

Un piano che mira a comprimere o a neutralizzare la promettente spinta delle nuove alleanze solidali promosse dal Venezuela, paese che custodisce le più grandi riserve petrolifere del mondo.

Al centro dell’Alleanza del Pacifico vi sono Colombia, Messico, Perù e Cile: i primi due sono sotto la presa del neoliberismo al soldo di Washington; il terzo, fallite le speranze riposte in Ollanta Humala, è semi-stordito dalle sirene delle grandi multinazionali e spalancato all’arrivo delle basi Usa; il Cile è impastoiato nelle dinamiche consociative e sta girando le spalle alla vera integrazione latinoamericana.

Che la figlia minore di Allende, Isabel, – eletta presidente del Senato per il partito della presidente Bachelet, Nuova Maggioranza – sia apertamente schierata con i golpisti venezuelani, la dice lunga sul corto circuito alimentato dai partiti di centro-sinistra, in America latina e in Europa.

Felipe Gonzalez, ex presidente del governo spagnolo ed ex presidente del Partito socialista ha mandato gli squadroni della morte (i Gal) contro i militanti baschi. E ora anima il gruppo internazionale “bi-partisan” che promuove le ingerenze in Venezuela.

Dalle Americhe all’Europa, la politica delle “larghe intese” considera il capitalismo un orizzonte insuperabile e ne tutela gli interessi. Diventa allora avversario da abbattere chi – come Cuba prima e il Venezuela ora – sta indicando un percorso alternativo.

In questo momento di rinnovato attacco al socialismo bolivariano, conviene ascoltare il monito del filosofo messicano Fernando Buen Abad :“Se non sapremo creare un grande movimento planetario in difesa della rivoluzione venezuelana, non ci basteranno i giorni per pentirci”.

Gli indigeni in Panamá reclamano al governo un’educazione interculturale

Traduzione di Raffaele Piras

 

Ci sono troppi insegnanti latini a impartire lezioni, insegnanti che non conoscono la nostra lingua. Non vengono formati e oltretutto non utilizzano i nostri libri. Quello che vogliamo è che i nostri figli non perdano la cultura materna

 

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Dal 2010 le autorità hanno promesso un’educazione interculturale nelle zone provinciali.

Fu allora che la Banca Mondiale concesse 4.5 milioni di dollari al Ministero dell’Educazione (Meduca) per iniziare il Programa Intercultural Bilingue (PIB).

Sono stati portati avanti gli studi, ma il modello del progetto non è mai iniziato.

L’attuale responsabile del Meduca, Marcela Paredesde Vázquez, assicura che anche se il piano iniziale non è stato attuato, l’educazione bilingue indigena è ancora in piedi. Cio nonostante il maggioritario gruppo nativo del paese, i ngabebuglé, non la pensano allo stesso modo.

“Ci sono troppi insegnanti latini a impartire lezioni, insegnanti che non conoscono la nostra lingua. Non vengono formati e oltretutto non utilizzano i nostri libri. Quello che vogliamo è che i nostri figli non perdano la cultura materna”, dice Alberto Montezuma, del Congreso General Ngabe-Buglé.

Dati del suddetto Congresso ribadiscono che il Colegio Petita Santos, il centro educativo situato alle periferie del territorio indigeno, conta 36 maestri. Tra questi, solo 8 sono nativi.

In altri collegi, come quello di Alto Chamí, nel cuore del territorio, di 40 educatori solo il 10% sono indigeni; lo stesso vale per il collegio di Quebrada Bea, dove i nativi sono 5 su 30.

“Non ci opponiamo al fatto che i latini insegnino ai nostri figli. Ciò che reclamiamo da sempre è che, nei primi tre gradi scolastici, incluso il grado prescolastico, gli educatori siano indigeni così che i nostri figli possano usufruire dell’educazione bilingue nei primi anni d’età”, aggiunge Montezuma.educacion-intercultural

D’accordo con il Meduca, quest’anno è iniziato una sorta di censo degli insegnanti indigeni per formarli a un’educazione interculturale bilingue, ma nel frattempo l’istituzione affronta altre problematiche, quali l’assenza materiale di infrastrutture per collegi di educazione media.

L’unico obbiettivo proposto dall’Onu, infatti, che abbia raggiunto Panamá, è stato la copertura totale dell’educazione primaria. Allo stesso tempo, il governo riconosce il deficit nell’educazione media e lo attribuisce, per l’appunto, alla mancanza di infrastrutture.

In cerca di una soluzione, il Meduca vuole investire più o meno 150 milioni per la costruzione di almeno 10 collegi in terre provinciali.

“La prima cosa che faremo è costruire un collegio nell’area di Llano Tugrí, così che anche i giovani di quell’area possano studiare, se lo desiderano”, ha anticipato la ministra, che spera che già da quest’anno vengano iniziati i lavori di costruzione.

Fonte: http://laestrella.com.pa/panama/nacional/indigenas-reclaman-educacion-intercultural/23866531

Conversazione con Soran Ahmad: segretario dell’Istituto Internazionale di Cultura Kurda.

“Quando la nostra disgrazia sarà consunta ed avrà fine? Ci sarà allora amica la fortuna e ci risveglieremo un giorno dal letargo? Un conquistatore emergerà tra noi e si rivelerà un re? Se noi avessimo un re il nostro denaro diverrebbe moneta battuta, e non resterebbe così sotto la dominazione del turco. Noi non saremmo rovinati nelle mani del gufo. Dio ha fatto così: ha posto il turco, il persiano e l’arabo sopra di noi. Mi stupisco del destino che Dio ha riservato ai Curdi. Questi Curdi che con la sciabola in mano hanno conquistato la gloria. Come è stato che i Curdi sono stati privati dell’impero del mondo e sottomessi agli altri? I Turchi e i Persiani sono circondati da muraglie curde. Tutte le volte che Arabi e Curdi si mobilitano, sono i Curdi che si bagnano nel sangue. Sempre divisi, in discordia, non ubbidiscono l’uno all’altro. Se noi fossimo uniti, questo turco, questo arabo e questo persiano sarebbero i nostri servitori”. Ahmede Khani in Memozin (risalente al XVII secolo)

 

 

 

1) Come nasce l’ idea di fondare un Istituto Internazionale di Cultura Kurda?
Come intende, l’Istituto Internazionale di Cultura Kurda, difendere il patrimonio culturale e storico del popolo kurdo?

S.A.: In realtà si tratta di un progetto concepito diversi anni fa. In passato vi sono stati diversi tentativi di realizzare iniziative di questo genere. Come succede in queste circostanze, spesso le idee si arensoran ahmedano.
Tuttavia cinque anni fa, nel 2011, tentai di contattare personalmente accademici, scrittori e intellettuali per proporre protocolli d’intesa, accordi, iniziative e programmi di seminari e convegni.
Le proposte andarono a buon fine, perciò siamo riusciti a stipulare diversi accordi con Accademie ed Istituti culturali, sia italiani e stranieri.
Nostro proposito è la  salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale di tutta la regione del Kurdistan, promuovere la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della comunità scientifica sui temi della tutela del patrimonio culturale kurdo, caldeggiare attività di formazione, sia in loco che in Italia, concernente la storia ed il vasto patrimonio artistico e culturale del Kurdistan.
Obiettivi specifici del programma sono relativi alla necessità di proporre e realizzare incontri, seminari e corsi di formazione, favorire lo sviluppo del territorio kurdo e del vasto patrimonio artistico, anche attraverso un approccio partecipato di più enti ed individui coinvolti nel processo. Un’ esempio delle diverse iniziative realizzate è quella del 18 gennaio 2015 sui
“Mutamenti geopolitici in Medio Oriente, i casi di Shengal e Kobane, le prospettive future del Kurdistan”. Il primo incontro si tenne alla Camera dei Deputati, il secondo a Torino.
In cantiere vi sono numerosi altri progetti. Perciò suggerisco di consultare il sito: http://istitutokurdo.org/it/

2) Come mai la lotta per l’autodeterminazione kurda resta sostanzialmente misconosciuta, almeno fino alla Guerra del Golfo?

S.A.: Il Kurdistan per secoli si trovò incagliato tra le alterne vicende dell’ impero ottomano e dell’impero persiano.
Fino al XVI secolo i principi curdi continuarono a governare il proprio territorio situato a cavallo tra i due imperi, un periodo relativamente felice per i principati curdi che terminò con il Trattato di Gialdiran del 1514, con il quale si definirono e limitarono i confini dei principati-curdi con la Persia. In questo modo i Curdi si trovarono frazionai e sfruttati dallo Shah e dal Sultano-Califfo per calcoli strategici. Ebbe così inizio la lunga storia di questo popolo che si trovò impotente di fronte ai capovolgimenti delle alleanze del nemico. Probabilmente l’unica unione effettivamente concretizzata fu quella risalente al periodo del Sultano d’Egitto e Siria e Hijaz (dal 1174), più noto come Saladino. Fondatore della dinastia degli Ayyubidi è annoverato tra i più grandi strateghi di tutti i tempi, ma si trattò di un’ unione di carattere religioso. Dopo lunghi anni di ininterrotta guerriglia, si dovette attendere il funesto 1975 quando con un’intesa intercorsa tra l’Iraq e l’Iran, in occasione della conferenza dell’O.P.E.C. ad Algeri, si condusse alla resa finale del leader kurdo Mustafà Barzani, che si ritirò negli Stati Uniti e vi morì quattro anni dopo. La capitolazione fu criticata in quanto la guerriglia curda disponeva di forze ancora inalterate. Tuttavia fu comprensibile in quanto un eventuale tradimento dell’Iran avrebbe ben presto fatto mancare i mezzi materiali per continuare la lotta contro l’Iraq. Con l’accordo di Algeri, l’Iraq declinò la riva orientale dello Shatt-al-Arab a favore dell’Iran. Questa concessione fu la causa principale dell’invasione irachena del 1980. All’epoca della lunga guerra irano-irachena, i Curdi hanno ricostruito la guerriglia fino a controllare vaste zone di territorio montuoso sia in Iran sia in Iraq. L’apprensione irachena per le dimensioni assunte dal problema della guerriglia-interna ha spinto il governo centrale, non senza stimolare le reazioni di tutto il mondo occidentale e dell’O.N.U.,ad un massiccio intervento con armi chimiche contro la popolazione civile curda: Halabja è così diventata la Hiroshima curda.
La fine della “Prima Guerra del Golfo” nel 1988 ha prodotto un ulteriore aggravamento della posizione curda, ossequiando il copione secondo il quale un’intesa fra gli stati che sfruttano a proprio vantaggio la guerriglia curda non fa altro che peggiorare la posizione di quest’ultima, sia in uno stato sia nell’altro: prova ne è l’esodo dell’ottobre 1990 di numerosi guerriglieri e dirigenti politici curdi da Teheran verso l’ovest, in particolare Londra.
Dopo il crollo del muro di Berlino franò tutta l’impostazione strategica degli anni precedenti e lo scenario internazionale cambiò.
Certamente anche la caduta di Saddam Hussein ha fatto in modo che, per la prima volta nella storia, venisse catapultata nell’ agorà-mediatico, la “questione-curda”.

3) Come si è formata la sua identità?
Come vive il dilemma di essere membro di un popolo storicamente oppresso ed osteggiato?
Come influisce questo nella sua sfera privata?

S.A.: Si tratta di un’ aspetto che riguarda l’ identità, ma la stessa identità è qualcosa di molteplice. Ognuno porta dentro di sé una sudditanza verso il proprio vissuto ed il proprio background. Esiste un’ identità etnica, come esiste un’ identità familiare, di “classe”, di “genere” o religiosa. Non ho mai dimenticato di essere curdo ma, nello stesso tempo, non ho mai avuto problemi e chiusure verso l’alterità.
Mi sento, nel contempo, anche italiano.
Sono ugualmente cosciente di essere membro di un popolo perseguitato. Tento tuttavia di superare la questione facendo in modo che venisse maggiormente conosciuta la nostra realtà culturale, in modo tale che gli altri possano riconoscere elementi positivi in noi e viceversa.
Inoltre sono convinto che l’oppressione tanto è più grande, tanto si sviluppano notevoli capacità di resistenza, rinvigorendo così la tempra di un popolo.

4) Il popolo kurdo è un popolo oppresso da diversi anni, direi da vari decenni. Nonostante ciò, ha sempre ricevuto scarsa visibilità, non si è mai trovato sotto i riflettori di tutto il mondo. L’ oppressione spesso è stata vissuta nel silenzio. In che modo, queste ultime e continue attenzioni-mediatiche hanno influito nella percezione di voi stessi, della vostra identità?

S.A.: Ritengo che il nuovo indirizzo dei media e l’opportunità che stiamo vivendo in questo momento, cioè di disporre di vari riflettori-mediatici internazionali, sia un’ occasione unica. L’ opportunità di realizzare una società curda migliore.
L’ opportunità di acquisire maggiori capacità politiche nel gestire una situazione delicata, senza attribuire responsabilità agli altri.
Oggi abbiamo più impegni poiché abbiamo l’ occasione di avere maggiore visibilità e maggiore unione politica.
Se saremo abili e altrettanto capaci, probabilmente riusciremo a costruire una società curda migliore ottenendo, nello stesso tempo, più indipendenza.
Autonomamente da quello che “altri” possano dire o affermare a riguardo…

5) Mi rende fortemente perplessa il fenomeno di glamourizzazione della guerriglia-curda.
Il fatto che i media-occidentali abbiano ritratto e dipinto le soldatesse con modalità glamour,
rappresentandole come modelle di riviste di “tendenza”.
È vero che si raggiungono enormi masse, anche masse di individui assolutamente qualunquistici che, fino a ieri,
non erano consapevoli dell’ esistenza di un popolo kurdo.
Ma non pensa che sia anche un modo per “banalizzare” la complessa e drammatica storia del popolo curdo,
nonché la drammaticità dell’ attuale-situazione storica (mi riferisco alla lotta al terrorismo)?

S.A.: Il fatto che esistano diversi ragazzi, assolutamente inconsapevoli, che fino a ieri non conoscevano l’ esistenza di una “questione-kurda”, ma che attualmente appoggiano la causa di Kobane, mi rende felice.
Se un’ azienda di moda, come H&M, si ispira alle nostre “fogge” per creare abiti alla “moda”, vuol dire che abbiamo vinto, che abbiamo conquistato il mondo ed anche gratuitamente!
Inoltre ritengo che non ci sia nulla di drammatico e tragico nel combattere una guerra e nel vincerla.
Piuttosto non vi è nulla di più tragico e drammatico che correre il rischio che un’ identità-culturale e sociale venga cancellata e dimenticata dalla storia.
Questo non possiamo permetterlo! Perciò guardo con simpatia tutti i fenomeni (gli ultimi) che “flirtano” con i nostri costumi e la nostra cultura, anche se attraverso una “glamourizzazione” degli stessi.

6) Ma non pensa che questa massificazione possa anche costituire una “banalizzazione” della causa?
Renderne riduttivo il senso ed il messaggio.

S.A.: Fino ad ora, la grande-stampa, quella “ufficiale” (mi riferisco a Repubblica, Il Corriere della Sera, il Messaggero, etc.) è sempre stata molto corretta ed attenta nel descrivere gli ultimi accadimenti dal mondo curdo.
Indubitabilmente esistono anche “provocatori” e persone che tentano di “deformare” e “volgarizzare” il nostro messaggio,
ma la questione non ci riguarda.
Si tratta di minoranze o fenomeni marginali. In questo preciso momento abbiamo questioni più gravi ed urgenti da affrontare.
Non vi è alcun proposito di indugiare oltre su “quisquilie” riguardanti il mondo della “comunicazione”,
almeno fino a quando la grande-stampa internazionale continuerà ad agire correttamente ed obbiettivamente nei nostri confronti.

7) Lei ritiene che il popolo kurdo abbia ricevuto un’ adeguato supporto-internazionale nella lotta al terrorismo dell’ Isis?
O vi sono state delle omissioni?

S.A.: Il popolo curdo è un attore come tanti, in questa guerra al terrore.
Certamente è uno degli attori principali e probabilmente tra i più colpiti.
Ma esistono delle alleanze militari con altri popoli ed altri governi.
Il popolo curdo ha portato a termine degli accordi.
Grazie a questi accordi abbiamo acquisito un riconoscimento internazionale nella lotta al terrorismo.
Le nostre guerrigliere hanno dato un enorme contributo alla lotta ma non erano sole.

8) Il Confederalismo Democratico (noto anche come comunalismo curdo o apoismo), è la proposta del Movimento di Liberazione Curdo per procedere nella liberazione del Kurdistan, in che modo questa dottrina viene interpretata ed applicata nell’ attuale Kurdistan-Iracheno?
Democrazia, socialismo, ecologismo e femminismo, sono i concetti-chiave per comprendere il Confederalismo Democratico del Movimento di Liberazione Curdo.
In che modalità il Kurdistan-Iracheno vive questi nuovi paradigmi? Come fece notare Andrés Pierantoni G. alla conferenza “Sfidare la Modernità Capitalista II” tenutasi ad Amburgo il 3-5 Aprile 2015, in Bolivia ed Ecuador, il concetto di Plurinazionalismo si intreccia con le comunità indigene o afro-discendenti radicate alla loro “Pacha Mama” e alle loro tradizioni, come lo sono le comunità del Rojava; nel caso del Venezuela, invece, è tipico di comunità per lo più urbane e sradicate, simili ai ghetti curdi, ad esempio nella periferia di Istanbul.
Ocalan affermò che “il confederalismo democratico”, propone:
un tipo di auto-amministrazione in contrasto con l’amministrazione dello Stato-nazione … Nel lungo periodo, la libertà e la giustizia può essere raggiunta solo all’interno di un processo confederale e democratico dinamico. Né il totale rifiuto, né il pieno riconoscimento dello Stato sono utili per gli sforzi democratici della società civile. Il superamento dello Stato, in particolare dello Stato-nazione, è un processo a lungo termine”.
In quale circostanza il popolo curdo comprese che progetto di costituire un classico modello di Stato-Nazione, in realtà, si presenta come impresa sconveniente ed inefficace?
Come ci si relaziona ai nuovi valori?

S.A.: Questa dottrina non è molto diffusa nel Kurdistan iracheno ma viene promossa nel Kurdistan turco ed ha trovato una sua prima-applicazione nel Rojava (Kurdistan-Sirano).
Il Kurdistan-iracheno attualmente è lontano dall’ “apoismo” ma ne condivide il progetto di comunità “non statale”, l’ idea di una creazione di comunità autonome confederate come critica allo Stato-Nazione di matrice continentale, in quanto percepito come ostacolo al diritto dei popoli ed alla loro autodeterminazione. Il confederalismo democratico sarebbe, quindi, un’ idea ampiamente condivisa anche nel Kurdistan-Iracheno.
Il progetto resta quello di riuscire a creare vari Stati-Federati Kurdi, autonomi ed indipendenti.
Attualmente, nel Kurdistan-Iracheno non è molto vivace il dibattito sull’ ecologia. Mentre esiste da più di un secolo un movimento femminista, nato e sviluppatosi attraverso le varie lotte partigiane.
Le prime femministe erano attiviste della sinistra-laica irachena. La donna, nella comunità kurda, ha sempre avuto un ruolo-chiave o di primo piano.
Nella società-curda se la donna è capace e desidera diventare ingegnera, dirigente o ambisce ad una carriera-politica non incontra molte difficoltà od opposizioni nel realizzare i propri desideri.
L’ autorità di una donna è facilmente accettata.
Tutt’ ora, se si passeggia tra i villaggi kurdi più tradizionali, è facile incontrare donne-kurde vestite in fogge maschili ed immerse, spesso, in attività e mestieri in altre culture considerati prettamente “virili”, come portare mattoni, costruire o riparare case, etc.
Nonostante ciò, sono ancora molto diffusi (come in tante parti del mondo) casi di stupro e/o di violenza-domestica.
Tuttavia l’ attuale governo iracheno garantisce, a tutte le donne che hanno subito violenza,
servizi di assistenza sanitaria e psicologica gratuita, nonché assistenza-legale e varie forme di “protezione”.
Nell’ amministrazione pubblica e politica sono stati fissati dei parametri ben-precisi:
si garantisce per ogni carica un 30% di quote rosa.
Tutte misure ampiamente rispettate e mai messe in discussione.
Il popolo kurdo tutt’ ora è attaccato e perseguitato dal terrorismo e dall’ integralismo anche
grazie alla sua laicità ed ad una maggiore attenzione dimostrata verso il mondo femminile.
Aspetti che, nell’ attuale contesto Mediorientale, minato da varie forme d’ integralismo, terrorismo e nazionalismo-militarista,
non sono visti di buon occhio.

11) In che modo avete guardato (o guadate tutt’ ora) all’ esperienza Latino-Americana?
S.A.: Non sono molto “addentrato” nella questione… So che diversi intellettuali e diversi giornalisti notano insolite similitudini, concomitanze e sincronismi tra l’ esperienza del Plurinazionalismo latino-americano di ispirazione Bolivariana ed il nostro Confederalismo-democratico.
Sarebbe senz’ altro utile, per il futuro, creare un’ osservatorio-politico che approfondisca ed esamini le corrispondenze e le similitudini tra i due modelli proposti.

 

                                                                                                                                 Maddalena Celano

 

Articolo tratto da www.ilsudest.it

e www.ilsudest.com

Il lancio di un mango al presidente ispira un gioco

Per il mercoledì delle Narrazioni tossiche: il 6 maggio 2015 il New York Times pubblica un pezzo firmato Associated Press, in cui anche un mango e un’applicazione per telefonia mobile sono buoni pretesti per screditare le politiche del governo bolivariano.

The goal of “Maduro Mango Attack” is to accumulate points by throwing tropical fruit at the socialist leader

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Due venezuelani, emigrati per sfuggire alla crisi economica del paese, stanno dispensando risate con un gioco per telefoni cellulari che deride il presidente Nicolas Maduro per la sua decisione di dare una nuova casa alla donna che gli lanciò un mango per attirare l’attenzione alla sua supplica di  avere un alloggio.

Lo scopo di “Maduro Mango Attack” è di accumulare punti tirando frutti tropicali al leader socialista che passa freneticamente nello schermo a ritmo di musica elettronica, intramezzato dalle urla di illustri capi dell’opposizione che scatenano la loro furia.

I giocatori sono inoltre ricompensati con la possibilità di scuoiare il presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello, che si pavoneggia con una borsa piena di dollari, e di colpire l’ex presidente Hugo Chávez, incarnato da un piccolo uccello in un berretto rosso – allusione all’osservazione di Maduro durante la campagna elettorale in cui Chávez lo avrebbe visitato in “forme svolazzanti” .

Secondo Google Play, negozio online per i giochi, nella settimana di debutto più di 10.000 persone hanno scaricato l’applicazione gratuita.
Il gioco è stato ispirato da un incidente dello scorso mese, in cui una donna scagliò un mango sulla testa di Maduro mentre guidava un bus attraverso una folla di sostenitori. Successivamente, sulla tv nazionale, Maduro mostrava il mango dove Marleny Olivo aveva scarabocchiato il suo numero di telefono, ammettendo poi la preghiera della donna per una nuova casa.

Scarpe, torte e uova rimangono gli oggetti più popolari da lanciare ai disprezzati politici di tutto il mondo. Ma il missile lanciato a Maduro proviene interamente dai sostenitori; il presidente inizialmente accolse positivamente la tendenza, “è il momento del mango” scherzava il 28 aprile, e, per l’umiliazione delle sue guardie del corpo, incoraggiava i fan a consegnare la frutta con le loro richieste di aiuto al governo.

Tuttavia, recentemente ha tentato di smorzare  i toni: “dovete fare attenzione compagni,” ha detto Maduro al corteo del primo maggio dopo aver evitato una maglietta contenente qualcosa di pesante. “Qualche volta una gentilezza può tramutarsi in qualcosa di completamente diverso.”

Fernando Malave, uno dei creatori del gioco, ha detto che non intendeva incoraggiare la violenza contro il presidente, ma piuttosto usare l’umorismo per attirare l’attenzione sui problemi del Venezuela. Malave ha dichiarato che assieme al suo socio, Gabriel Diaz, si trasferirono in Argentina lo scorso anno per cercare lavoro, stufi dell’alto tasso di criminalità e le scarse prospettive lavorative in mezzo ad una crisi economica segnata da una crescente inflazione e una diffusa mancanza di beni.

Le difficoltà hanno dimezzato  il consenso nei confronti di Maduro da quando è stato eletto presidente nel 2013, toccando il fondo con il 28% in un sondaggio raccolto dall’agenzia locale Datanalisis in aprile.

“La gente è stanca e tutti vogliono un cambiamento, ma non sanno che tipo di cambiamento,” ha detto Malave. “Fortunatamente lo spirito, che ha sempre unito i venezuelani, riesce ad alleviare  lo stress quotidiano.”

Articolo originale:
http://www.nytimes.com/aponline/2015/05/06/world/americas/ap-lt-venezuela-maduro-mango-attack.html

36 popoli indigeni dell’Amazzonia apporteranno idee per la pace in Colombia

Traduzione di Raffaele Piras

Presupposto:

Il governo e le FARC-EP hanno iniziato a Cuba un tavolo di dialogo per porre fine al conflitto armato che ha dato luogo a quasi cinque milioni di desplazados e più di 600 mila morti in 50 anni.

Popoli originari portano proposte per la pace in Colombia
Popoli originari portano proposte per la pace in Colombia

Circa 36 popoli indigeni dell’Amazzonia colombiana apporteranno nuove idee al Governo di Juan Manuel Santos per consolidare la tanto ambita pace che il popolo colombiano chiede da più di 50 anni.

Il documento sarà presentato durante il sesto Congresso dei Popoli Indigeni che avrà luogo nella città di Villavicencio (centro colombiano) il prossimo 19 e 20 maggio 2015.

“Rendere visibili le condizioni nella quale vivono gli indigeni e sviluppare un documento dei nostri contributi e delle nostre esigenze nella costruzione della pace è parte del nostro obbiettivo”, ha assicurato il portavoce dell’Organización de los Pueblos Indígenas de la Amazonia Colombiana (Opiac), Henrry Cabria Medina.

La Opiac è un’organizzazione che cerca di promuovere, sviluppare e stimolare meccanismi per l’interazione dei popoli e organizzazioni originarie dell’Amazzonia Colombiana, articolando processi con lo Stato e con le ONG nazionali e internazionali.

A inizio aprile 2015, migliaia di colombiani hanno marciato in appoggio ai Diálogos de Paz che mantengono il Governo del presidente Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia-Ejército del Pueblo (FARC-EP) a La Habana.

Leggi anche, sul fallimento del Plan Colombia : http://www.telesurtv.net/news/Fracaso-millonario-de-EE.UU.-con-el-Plan-Colombia-20150505-0041.html

Fonte : http://www.telesurtv.net/news/Indigenas-aportaran-ideas-para-la-paz-de-Colombia-20150506-0043.html

Roma-Ayotzinapa: la solidarietà degli studenti supera gli oceani

di Davide Angelilli (Caracas Chiama) per CubaInformazione

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Dal 17 aprile, sta girando per tutta Europa una carovana composta da familiari, amici e compagni dei 43 studenti “normalistas” sequestrati dalla polizia messicana e tuttora “desaparecidos” in seguito alla cruenta repressione di una manifestazione popolare avvenuta circa Sette mesi fa nello Stato di Guerrero in Messico. Mercoledì scorso la caravana è giunta a Roma, dove si è realizzato un importante incontro con i collettivi studenteschi della capitale italiana. Gli studenti sono i protagonisti nelle Scuole “Normales” rurali, sorte negli anni Trenta per fare dell’educazione un “fortino” dell’emancipazione delle classi più povere del Messico.

La scuola di Ayotzinapa, dove studiavano i 43 giovani tuttora scomparsi, prende il nome di Raúl Isidro Burgos: il giovane professore che fondò questa scuola, stimolato dalla solidarietà verso gli sfruttati delle comunità contadine. Il messaggio che la carovana ha trasmesso a Roma è chiaro. Si tratta proprio della solidarietà e della complicità a favore delle classi più povere quello che non tollera lo Stato messicano, nonché il sistema di potere che governa il paese. Una solidarietà, quella delle Scuole “Normales”, che, di fatto, si materializza in educazione pubblica aperta a tutti, diretta alle comunità rurali e indigene. Un’educazione del tutto in antitesi con quella promossa dal governo di Enrique Peña Nieto che privatizza tutto ciò che è possibile, colpendo duramente ogni giorno sempre di più i diritti sociali del popolo.

Dinnanzi alla più completa impunità nei confronti della polizia, tutti coloro che sono solidali con gli studenti si stanno riversando nelle strade per urlare la loro indignazione nei confronti della corruzione dilagante all’interno delle più alte sfere governative completamente colluse con le élites criminali che padroneggiano in Messico. Un grido di rabbia e di rivolta che accomuna non pochi settori popolari del paese: dai movimento zapatista fino ai sindacati. Una lotta trasformatrice, che la carovana ha trasmesso fino a sotto l’Ambasciata di quel paese nordamericano in Italia, trovando la solidarietà attiva da parte dei movimenti sociali di Roma. Dopo l’azione di protesta sotto l’Ambasciata, ha avuto luogo un dibattito pubblico presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Con la partecipazione di comitati di migranti, organizzazioni della sinistra italiana e collettivi studenteschi.

Tra questi, i giovani della “Sapienza Clandestina”, che nei giorni anteriori avevano realizzato azioni in seno all’Università per sensibilizzare e informare sul caso dei “Normalistas”. Così come in Messico, anche in Italia le organizzazioni studentesche si stanno mobilitando con forza contro la privatizzazione dell’educazione e in difesa del diritto allo studio. Da oltre due anni l’organizzazione “Sapienza Clandestina” ha occupato uno spazio dentro l’università – una delle più grandi d’Europa – trasformandolo in un centro sociale.

Il movimento ha due obiettivi principali: (1) che gli studenti diventino i veri protagonisti all’interno dell’Università; (2) che si pongano le basi per l’organizzazione di una Resistenza contro la distruzione sistematica dell’università pubblica. Come già è accaduto in passato, il movimento studentesco non è isolato. In questa lotta gli studenti sono accompagnati da parecchi movimenti sociali e politici della Capitale, ivi compreso il Coordinamento per il Diritto alla Casa. Sicché, all’interno di questa lotta, le iniziative internazionaliste hanno sottolineato l’importanza di costruire relazioni di solidarietà contro lo stesso nemico: il modello capitalista e neoliberale a livello mondiale.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Alessandro Pagani]

La rivoluzione sulle palafitte

di Geraldina Colotti per CaracasChiama

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Nello stato del Delta Amacuro, in Venezuela, le popolazioni indigene che abitano le comunità fluviali si spostano sulle canoe e vivono su palafitte. Ma anche da loro è arrivata la Misión Vivienda, attraverso la quale il governo socialista si propone di fornire a chi ne ha bisogno una casa popolare arredata. Finora ne sono state costruite 700.000 in tutto il paese, e l’obiettivo è di arrivare ai 3 milioni entro il 2019. Per le comunità del Delta Amacuro, però, le case popolari vengono tirate su in forma di palafitte: ognuna di 70 mq, provviste di cucina e bagno. Nonostante le difficoltà incontrate per trasportare il materiale, finora ne sono state costruite 30, 15 per ogni località e si prevede di terminare l’intero lavoro entro fine anno. Un modo di rendere concreto quanto enunciato dalle linee strategiche del Plan de la Patria 2013-2019 in cui risulta centrale il tema dell’ambiente e il perseguimento di un nuovo modello di sviluppo: in grado di portare benessere e progresso ma senza distruggere le architetture originarie.

Un esempio del lungo cammino di civiltà compiuto dal socialismo bolivariano in soli 16 anni. Un approccio ai diritti e alle differenze ben distante da quel che accade nel mondo capitalista, dove i migranti muoiono nelle acque del Mediterraneo e i rom – anche se nati nel paese – vengono discriminati e scacciati. Un percorso in controtendenza rispetto ai canoni del neoliberismo per cui gli indigeni, prima di Chávez, non erano neanche censiti. Alla fine degli anni ’90, il 30% della popolazione controllava il 61% della ricchezza nazionale. Oggi, mentre in Europa la disoccupazione aumenta e i salari diminuiscono, in Venezuela avviene il contrario.

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Occultare i risultati ottenuti dall’economia socialista, che dedica più del 60% del Pil agli investimenti sociali, significa cancellare il “cattivo” esempio che può essere ripreso nel Nord del mondo. Per le classi dominanti europee, dar manforte alla borghesia parassitaria venezuelana, alla Confindustria, alle oligarchie che combattono con ogni mezzo per riconquistare il terreno perduto, significa quindi allontanare da sé lo spettro della disfatta e tutelare i propri privilegi. Dove non si arriva con la forza, con la guerra sporca e con il sabotaggio, si prova con la melina della cosiddetta ricerca del dialogo: per zavorrare il governo socialista, disinnescare le conquiste sociali, scontentare l’elettorato chavista, e intanto continuare a perseguire i propri affari.

Bene ha fatto, perciò, Nicolas Maduro, ad annunciare una virata a sinistra, rileggendo in questo senso la “lezione” di Allende in Cile. Le similitudini con le manovre dirette da Washington, che hanno portato al golpe pinochettista dell’11 settembre 1973, infatti non mancano. Allora, Nixon ordinava “di far piangere l’economia cilena”. Oggi, l’eco di quelle parole aleggia sul Venezuela bolivariano. Maduro ha spiegato che le politiche socialiste hanno mantenuto “tre paesi”: quello reale, che oggi ha un tenore sociale più alto da cento anni e che ha sconfitto la fame e ridotto drasticamente la disoccupazione; quello delle mafie interne, che prosperano sul contrabbando e sul mercato nero dei prodotti sussidiati; e quello delle mafie colombiane, che si arricchiscono con i traffici oltrefrontiera garantiti dai bachaqueros, gli accaparratori a pagamento. Un esempio per tutti: in Venezuela la benzina costa pochissimo, un pieno di 80 litri si paga 7,76 bolivares. In Colombia, la rivendono a 2.100 bolivares. Non passa giorno senza che la polizia scopra tonnellate di prodotti nascosti, pronti per il mercato nero. Un business che svuota il paese di quasi 40% dei suoi prodotti sovvenzionati. In questo, giocano la propaganda e gli allarmi, che spingono una popolazione ancora troppo influenzata dal consumismo, all’acquisto compulsivo. E poi c’è la piaga dei “raspacupos”: una rete di trafficanti si dedica a “raspare” le carte di credito su cui deposita il montante di dollari a prezzo agevolato richiesto per presunti viaggi che poi non vengono effettuati. In compenso, si passa la carta a qualcuno che va a “svuotarla” all’estero con acquisti inesistenti e rivende i dollari al mercato nero. Il chavismo ha istituito la possibilità che tutti possano richiedere una certa cifra annuale di dollari: così anche i meno abbienti possono effettuare viaggi all’estero. Le mafie, però, ne hanno subito approfittato. E ora il governo cerca di modificare le procedure per arginare il fenomeno.

Oggi, 7.000 imprese sono sotto inchiesta per uso irregolare di dollari. Una commissione speciale del Parlamento sta indagando sulla fuga di oltre 20.000 milioni di dollari sottratti da imprese fantasma, illegali o non iscritte al registro mercantile.

“Non ci sono più dollari per Fedecámaras”, ha detto Maduro rivolgendosi alla locale Confindustria, e ha fatto appello agli operai affinché assumano con più coscienza il controllo della produzione.

Negli ultimi 16 anni, la classe operaia ha ricevuto 28 aumenti del salario minimo, estesi anche ai pensionati. In questo anno determinante per il “laboratorio” bolivariano, comincia ora una nuova sfida.