Il deputato cubano Luis Morlote ha segnalato che alcuni partecipanti al foro “non rappresentano la società civile di Cuba” e sono amici di terroristi. La delegazione cubana si è ritirata questo mercoledì dalla sessione plenaria del Foro della Società Civile e Agenti Sociali, che si realizza dentro la cornice del VII Vertice delle Americhe, poiché rifiutava alcuni partecipanti “che non rappresentano la società civile di Cuba e tra cui ci sono alcuni che vantano amicizie con terroristi” (ndt. La delegazione cubana aveva denunciato la presenza in sala dell’assassino del Che Guevara) . Per solidarietà con Cuba, anche la delegazione venezuelana si è ritirata dalla sessione. Lo stesso deputato cubano ha dichiarato che “i rappresentanti della vera società civile hanno lasciato il foro perché non hanno intenzione di condividere lo spazio con rappresentanti di una supposta società civile, che non è la nostra, che sta sotto soldo”. Dopo l’uscita, Morlote ha spiegato che già avevano sollecitato gli organizzatori a mandare via dalla sala questi individui. “Non possiamo stare nello stesso spazio… non è possibile che ci siano mercenari che si autonominano come rappresentanti della società civile. È inammissibile” ha aggiunto il deputato cubano. Tuttavia, ha dichiarato che rimane l’intenzione di partecipare ai tavoli di dialogo al foro, che inizieranno il 10 aprile. Inoltre, la delegazione cubana ha denunciato di non aver ricevuto le apposite credenziali per assistere all’evento, e quindi di aver dovuto usare i passaporti per assistere alla sessione.
IL CONTESTO:
Questo mercoledì, si sono realizzati due delle sessioni che occupano il dibattito tecnico previo al Vertice delle Americhe: quello della Società Civile e degli Agenti Sociali (8, 9, 10 aprile) e quello della Gioventù (8 e 9 di aprile). In entrambi gli spazi si sono riuniti principalmente rappresentanti di estrema destra, opposti alle politiche progressiste di America Latina e Caraibi. Almeno 20 controrivoluzionari cubani hanno le credenziali per partecipare al Foro della Società Civile, non si scarta nemmeno la partecipazione di ONG che rifiutano le politiche di Cuba, e che godono di finanziamento internazionale.
Per le Narrazioni tossiche: Jorge L.Ortiz, articolo apparso su Usa Today (unico quotidiano a tiratura nazionale) il 24 marzo 2015. Negli Stati Uniti il baseball è lo sport più seguito in assoluto, davanti al football e al basket: quale miglior occasione dunque, per screditare le politiche bolivariane, se non quella di intervistare professionisti più-che-benestanti in ritirata dal presunto regime socialista?
Uncomfortable with the rampant crime in the country with the second-highest homicide rate in the world last year, Montero renewed his passport in his native Caracas and hurried back to the USA, feeling terrible for the family members and countrymen he left behind.
Il ricevitore dei Chicago Cubs Miguel Montero, stabilitosi a Phoenix sin dal 2007, è tornato la scorsa estate in Venezuela, dove vivono la maggior parte dei suoi parenti.
Ci è rimasto cinque giorni.
A disagio col dilagare del crimine nel paese con il secondo tasso di omicidi più alto del mondo nel 2014, Montero ha rinnovato il passaporto nella città che gli ha dato i natali, Caracas, ed è corso indietro negli Stati Uniti, in angoscia per i membri della famiglia e per i connazionali lasciati nel paese.
“Andrei dal posto dove stavo cercando ti avere il mio passaporto e tornerei indietro. Solo questo,” ha detto Montero. “Uno vuole andare nel suo paese per rilassarsi e stare bene, non per essere sparato dentro casa perché si ha paura di uscire… Ci sono problemi di sicurezza in tutto il mondo, ma uno guarda le notizie sul Venezuela e ci sono più omicidi che in Afghanistan.”
Montero, che ha due figli e chiederà la cittadinanza statunitense quest’anno, è salito alla ribalta per quella che è diventata un’ondata di giocatori venezuelani trasferitisi con la famiglia negli Usa, principalmente per motivi di sicurezza.
Felix Hernandez, Miguel Cabrera, Carlos Gonzales e Victor Martinez sono alcuni dei più famosi venezuelani che hanno stabilito radici negli Stati Uniti, ma non sono soltanto le star che stanno cambiando casa. Gregor Blanco e Guillermo Quiroz, compagni di squadra nei San Francisco Giants, si sono trasferiti a Miami, destinazione favorita per gli espatriati.
L’esterno dei Chicago White Sox Avisail Garcia e Alex Torreas e Yangervis Solarte, compagni nei San Diego Padres, sono fra quelli che stanno chiedendo la residenza permanente.
Nel bel mezzo di questa migrazione, tensioni continuano a crescere fra il governo socialista venezuelano del presidente Nicolas Maduro e gli Stati Uniti.
A dicembre, il governo statunitense ha ufficialmente giudicato la situazione in Venezuela, dove la repressione delle proteste anti-governative ha causato più di 40 vittime lo scorso anno, un’emergenza nazionale. Maduro ha risposto definendo questa dichiarazione “un atto di aggressione”.
All’inizio del mese il presidente Obama ha emanato un ordine esecutivo sanzionando sette funzionari venezuelani, considerati responsabili per il giro di vite. Da parte sua, Maduro ha ordinato la riduzione dello staff dell’ambasciata Usa in Venezuela da 100 membri fino a 17, e ha annunciato che i cittadini americani adesso dovrebbero richiedere il visto per entrare nel paese sudamericano.
Mentre i giocatori di baseball tendono a stare lontano dalla politica, molti venezuelani della Major League dicono che la combinazione di problemi di sicurezza ed emergenza economica nel paese – il tasso d’inflazione ha sorpassato il 60% – ha suggerito loro di cercare un futuro per la propria famiglia da qualche altra parte.
“Non ho mai pensato di trasferirmi qui per vivere,” ha detto Blanco, il quale ha un figlio di 4 anni con sua moglie e un altro di 9 anni avuto da una precedente relazione. “Gli Stati Uniti sono un bellissimo paese con un sacco di ottime cose, ma è dura trasferirsi dal proprio paese in un altro. Sei abituato alle tue tradizioni, alla tua patria, alla tua gente. Tutto è cambiato da un giorno all’altro quando ho realizzato – Wow, devo fare attenzione alla sicurezza dei miei figli. – Per questo ho preso quella decisione.”
Decisione confermata quando Blanco ha passato tre settimane in estate a Los Valley del Tuy, il sobborgo dove è cresciuto fuori Caracas. Blanco lo ricordava come piacevole e tranquillo. Non lo è più.
Carenza di cibo e di beni primari come carta igienica, pannolini e medicine rendono la vita difficile. Blanco ha provato per cinque anni a costruire una casa per il ritorno, ma non ha potuto trovare elettrodomestici da comprare.
Peggio ancora, una sensazione di illegalità ha permeato la zona.
“Sei sempre spaventato che qualcosa di brutta possa accadere,” ha detto Blanco. “Quando sei addormentato, ogni rumore ti fa pensare alle peggiori conseguenze. E’ dura vivere con questo stress tutti i giorni.”
Raramente un presidente statunitense ha coagulato una tale unanimità contro di lui.
Dopo l’Unasur che rappresenta 12 governi sudamericani, la Celac che raggruppa i 33 stati dell’America latina e dei caraibi, l’Alba, PetroCarive, i 134 membri del G77 + la Cina.. Insomma tutto il sud del pianeta ha rigettato il decreto di Obama perchè «viola il diritto internazionale, la sovranità e l’indipendenza politica del Venezuela».
In tutto il mondo, dei movimenti sociali sostengono l’appello che, in Venezuela ha già raccolto 5 milioni di firme.
Parallelemente a questa mobilitazione nazionale, sembra che il lavoro sottotraccia intrapreso dal governo Maduro per contrastare la guerra economica incomici a dare i suoi frutti. Uno studio intrapreso dal privato Hinterkaces (realizzato dal 14 al 18 marzo su una base di 1200 interviste effettuate su tutto il territorio) rivela che il 65% della popolazione si dice «ottimista», ben 4 punti in più rispetto a gennaio 2015, contro i 34% di «pessimisti (38% a gennaio).
IL 24 marzo scorso abbiamo festeggiato il 161esimo anniversario dell’abolizione della schiavitù, decisa dal presidente Josè Gregorio Monagas, sulla scia dei decreti di Simon Bolivar. Una politica che ha valso a quest’ultimo di essere tacciato dai giornali delle grandi piantagioni schiaviste del sud degli Stati uniti e degli oligarchi latino americani come «Cesare assetato di potere». Ai giorni nostri, è organizzando una «marcia di mille tamburi» che il movimento discendente dagli schiavi africani, ha espresso il suo sdegno rispetto alle campagne mediatiche e al decreto del presidente Obama di classificare il Venezuela come minaccia inabituale e straordinaria per la politica estera degli Stati uniti. David Abello, del «consiglio per lo sviluppo della comunità afroamericana» ha dichiarato: «In questo momento della storia, che ci garantisce la libertà, non permetteremo a nessuno di ricolonizzarci».
Un tweet da record in solidarietà con il Venezuela di Nicolas Maduro: L’etichetta “Obama, abroga il decreto subito”, nella sua versione originale – “#ObamaDerogaElDecretoYa” – è balzata subito al primo posto nelle tendenze locali, e al secondo negli Stati uniti nella formula inglese (#ObamaRepealTheExecutiveOrder): quasi 2 milioni nelle prime ore del 20 marzo, oltre 6.500 tweet al minuto. Un record nella storia delle reti sociali. Avanza a ritmo serrato anche la campagna di firme (più di cinque milioni negli ultimi giorni di marzo) che si propone lo stesso obbiettivo: dire agli Usa che “il Venezuela non è una minaccia, ma una speranza”. Maduro ha deciso di spiegarlo “al coraggioso popolo degli Stati uniti” anche acquistando una pagina sul New York Times.
Il responsabile della campagna è il sindaco di Caracas, Jorge Rodriguez, dirigente del Partito socialista unito (Psuv): “Il Venezuela è un popolo di pace – ha detto Rodriguez – invece, gli Stati uniti hanno la spesa militare più alta del mondo, si sono arrogati il diritto di invadere 92 paesi e di intervenire militarmente in 14 dei 21 territori situati a sud del Rio Grande. Hanno invaso Panama sei volte, 11 volte il Nicaragua, hanno rubato 2/3 del territorio al Messico, e pilotato le violenze del 2014 in Venezuela. Non è possibile che un paese si creda il gendarme del mondo e pretenda di governare per decreto gli altri stati”.
La campagna si propone di raggiungere 10 milioni di firme, da consegnare al presidente Usa – che il 9 marzo ha definito il Venezuela “una minaccia eccezionale per la sicurezza degli Stati uniti” – in occasione del prossimo vertice dell’Organizzazione degli stati americani (Osa). Il summit si terrà a Panama il 10 e l’11 aprile e per la prima volta vi parteciperà anche Cuba. Il decreto di Obama mette al centro le sanzioni a 7 funzionari del governo Maduro per presunte “violazioni dei diritti umani dell’opposizione”. Al contempo, apre però la porta a un disegno più insidioso che potrebbe portare a una situazione di blocco economico come quella disposta contro Cuba. Molti analisti rilevano una “strategia del caos” e del discredito, portata avanti dai media per saggiare la possibilità di un intervento militare. Una tesi sostenuta dalla ministra degli Esteri venezuelana, Delcy Rodriguez in un’infuocata sessione del Consiglio permanente Osa, che si è svolta a Ginevra. Rodriguez ha denunciato che alcuni conti all’estero delle diplomazie sono già stati bloccati, e che questo costituisce “una violazione al diritto internazionale”. Ha detto che “interessi egemonici pretendono impossessarsi della maggiore riserva di petrolio del mondo” e che le sanzioni di Obama “implicano interventi militari e aggressioni di altro tipo, come il blocco finanziario”. In questo modo – ha aggiunto – “i funzionari che agiscono per difendere la sicurezza dei cittadini in qualunque altra parte del mondo devono temere che un altro paese si attribuisca la facoltà di giudicarli per il compito che svolgono”. L’ambasciatore Usa, Michael J. Fitzpatric, ha ribattuto che il suo paese “non sta preparando un’invasione del Venezuela, né pretende di destabilizzare il governo Maduro”, e ha sostenuto che il governo Obama “vuole solo evitare che una serie di individui che pensiamo abbiamo violato i diritti umani di altri venezuelani possano venire negli Usa o investire nel nostro sistema finanziario”. Il Venezuela ha replicato che tutto il denaro depositato all’estero dai venezuelani senza giustificazione dev’essere rimpatriato: a partire da quello dei banchieri fraudolenti fuggiti a Miami coi soldi dei cittadini.
Il decreto Obama ha comunque avuto l’effetto di ricompattare la solidarietà di tutti gli organismi regionali intorno al Venezuela: dall’Alba alla Unasur, alla Celac (tutti gli stati americani meno Usa e Canada), e al blocco dei Paesi non allineati (120 nazioni), ad alcuni rappresentanti dei Brics, come Brasile, Russia e Cina, che hanno appoggiato Maduro. Con l’elezione dell’uruguayano Luis Almagro (del Frente Amplio) alla direzione dell’Osa, la musica può cambiare anche all’interno dell’organismo, sempre subalterno agli Stati uniti.
Certo, l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica ha dovuto rettificare le dichiarazioni dell’attuale vicepresidente Raul Sendic (“non ci sono prove di un’ingerenza degli Sati uniti in Venezuela”). Le parole di Sendic (figlio dello storico dirigente fondatore dei Tupamaros) hanno fatto spostare a Quito la prevista riunione di Unasur dopo la reazione offesa di Caracas. L’elezione del ben più moderato Tabaré Vazquez alla guida dell’Uruguay sposterà nuovamente lo sguardo di Montevideo più verso Washington che verso Caracas? Per ora, la sinistra uruguayana ha deciso di far sentire un’altra musica organizzando una partecipata manifestazione in solidarietà col Venezuela bolivariano. A guidarla, l’ex presidente Pepe Mujica, accompagnato proprio dall’attuale vice Raul Sendic.
Anche il colombiano Ernesto Samper, attualmente alla segreteria di Unasur, ha dovuto seguire l’indirizzo finora assunto dal blocco regionale: “Se gli Stati uniti vogliono stabilire una nuova relazione, a partire dal rientro di Cuba nella famiglia interamericana, dovranno considerare che l’unica strada possibile è quella del multilateralismo”, ha detto Samper. Le sue dichiarazioni arrivano dopo la richiesta del governo Usa di aumentare le spese di bilancio per il Latinoamerica di circa il 35% nel 2016. Si arriverebbe così intorno ai 2 milioni di dollari, prevalentemente destinati a foraggiare la cosiddetta “libertà di stampa”, i cosiddetti “diritti umani” (dei ricchi) e la cosiddetta “democrazia” (borghese): principalmente a Cuba, in Venezuela, in Nicaragua e in Ecuador. Unasur porterà perciò a Panama una proposta forte: via tutte le basi militari Usa dal territorio latinoamericano. Il ministro degli Esteri ecuadoriano Ricardo Patiño, che rappresenta la parte più a sinistra del governo Correa, guida invece il gruppo di “facilitatori” nominato dall’Alba per mediare tra Stati uniti e Venezuela.
Il decreto di Obama si riverbera anche nelle dinamiche politiche interne al Venezuela, di fatto già in campagna elettorale per le decisive elezioni parlamentari previste entro l’anno. E c’è chi cerca di trarne vantaggio anche nel campo dell’opposizione e di usare a proprio profitto la bandiera del nazionalismo: per captare i voti degli indecisi (il 40%, secondo le inchieste di opposizione) e immaginare una “terza via” tra chavismo e Mesa de la Unidad Democratica (Mud). L’idea è venuta al deputato di opposizione Ricardo Sanchez, che si è distinto per aver votato in Parlamento la “legge abilitante antimperialista” che concede a Maduro di promulgare decreti per nove mesi. Attorniato dai giornalisti, Sanchez è andato in piazza a firmare contro il decreto Obama, ed è stato definito dai chavisti “un eroe” del suo campo, capace di esprimersi fuori dal coro.
Ma intanto, a Miami, l’opposizione più fanatica raccoglie firme per chiedere un intervento Usa, sostenuta dai suoi potenti padrini, in Nordamerica e in Europa. Diverse centinaia di parlamentari, spagnoli e latinoamericani (della destra o del centro-sinistra moderato) stanno preparando una denuncia alla Corte penale europea contro il governo Maduro per “violazione ai diritti umani”. Uno strappo in più per isolare il governo Maduro nel panorama internazionale.
E intanto, le grandi istituzioni finanziarie accelerano le cause pendenti sul Venezuela e gonfiano la richiesta di indennizzo per le nazionalizzazioni decise da Chavez: tutto serve a dare l’idea di un paese in bancarotta e di un governo incapace di tenere il timone.
L’attacco al Venezuela socialista, alle sue risorse petrolifere e al suo indirizzo anticapitalista, evidenzia così il senso e la portata di una battaglia che va ben oltre i confini del paese bolivariano. Evidenzia, anche, il ritorno indietro e la debolezza di chi, in Europa, dovrebbe ricostruire il campo dell’alternativa. “Il proletariato non ha nazione, internazionalismo, rivoluzione”, gridavano le piazze italiane negli anni ’70. Oggi, dopo la sconfitta di quel grande ciclo di lotta, i vincitori hanno riscritto la storia: capovolgendo il senso di quella battaglia campale, occultano la natura della disuguaglianza e delle asimmetrie. Seminano la “metafisica della rassegnazione” o la politica del “male minore”. Per le classi dominanti e per i pompieri del conflitto sociale, il socialismo bolivariano è il nuovo “fantasma che si aggira per l’Europa”. Una bandiera e una speranza per chi vuole liberarsi dalle loro catene.
Sono passati già 6 mesi da quando il governo messicano ha compiuto un massacro senza precedenti nella storia del paese. Il 26 settembre del 2014 a Iguala, Guerrero, è stato massacrato un gruppo di studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa e sono stati poi detenuti/fatti sparire 43 di loro.
Da allora un movimento multitudinario ha preso le strade esigendo giustizia. Praticamente in tutto il paese studenti, lavoratori e le fasce più povere della popolazione si è riversata in strada con il motto Vivos se los llevaron, vivos los queremos !
Le proteste hanno raggiunto un punto molto avanzato di mobilitazione il 20 novembre del 2014. Molti analisti considerano quella manifestazione storica per diversi motivi: l’imponenza, l’emotività e l’unità tra sindacati e settori popolari. I numeri della mobilitazione variano, ma chi di noi si trovava in quel fiume umano che ha protestato da diversi punti sa che eravamo almeno centinaia di migliaia, e diversi mezzi di comunicazione hanno calcolato in 2 milioni la cifra di manifestanti in tutto il Messico.
Anche l’emotività fu impressionante: per un momento avevamo obbligato il governo federale a sgomberare il Zócalo di Città del Messico e ad annullare la parata militare. La partecipazione del movimento giovanile e popolare si è affiancata ai sindacati, come quello dei lavoratori della telefonia, nella realizzazione di uno sciopero nazionale, confluendo nella mobilitazione in tutto il paese.
Il caso Ayotzinapa ha messo in crisi il regime messicano. Le parole d’ordine della mobilitazione recitavano #FueElEstado. Il movimento ha colpevolizzato tutti i partiti del congresso (PRI, PAN, PRD) e ha denunciato che tutto il paese è marcio.
Gli eroici familiari dei 43 studenti non hanno cessato di mobilitarsi giorno e notte per ottenere la presentazione con vita dei ragazzi, e hanno sollecitato una trasformazione dalla radice di tutto il paese. Insistono che è stato lo Stato e hanno denunciato che il Batallón 27 delle forze armate si trova implicato nel massacro.
Anche se il governo cerca di insabbiare la vicenda presentando la verità storica secondo cui i 43 sarebbero stati bruciati nella discarica di Cocula dal crimine organizzato, ci sono indizi dei periti del Equipo Argentino de Antropología Forense, di accademici universitari e degli stessi familiari delle vittime che vedono probabile che le forze armate siano implicate nel massacro.
Offensiva reazionaria: Peña Nieto vuole superare il caso Ayotzinapa e spinge a votare alle prossime elezioni.
Il regime messicano ha realizzato una forte offensiva reazionaria contro il movimento che esige la presentazione con vita dei 43 studenti. In primo luogo la Procuraduría General de la República ha dichiarato che esiste una sola verdad histórica sul caso Iguala: gli studenti sono morti a causa del crimine organizzato.
In secondo luogo il regime è tornato a ricorrere alla repressione a ogni manifestazione. Il 20 novembre, per esempio, gli studenti che sono stati detenuti sono stati portati in carceri di massima sicurezza, seminando il panico nella mobilitazione. A inizio anno è stato assassinato l’attivista Gustavo Salgado a Cuernacava, militante del FPR, ed è stata giustiziata Norma Angélica, della Comisíon de Búsqueda de Familiares Desaparecidos a Iguala.
Con il logoramento della mobilitazione e l’impotenza della strategia delle direzioni sindacali nell’avanzare un piano unificato che concentri lo scontento nazionale, il regime ha avanzato ancor di più con una forte offensiva contro i lavoratori.
Ha imposto un nuovo taglio alla PEMEX con più di 100mila licenziamenti annunciati, tagli alla sicurezza sociale (IMSS, ISSSTE) e ha anticipato la volontà di riforma dell’apparato B dell’articolo 123, che liquida il diritto allo sciopero e alla contrattazione collettiva dei lavoratori del settore pubblico. Ha avuto luogo, inoltre, un recorte alle libertà democratiche con il licenziamento di Carmen Aristegui del MVS, per aver diffuso i casi di corruzione del governo di Peña Nieto.
L’offensiva continua con l’iniziativa di legge che prevede la privatizzazione dell’acqua: gli impresari potranno privatizzare il diritto umano all’uso del liquido vitale.
Il Consejo Coordinador Empresarial, massima organizzazione dei capitalisti del paese, ha lanciato un appello affinché il prossimo processo elettorale si sviluppi nel segno della normalità.
L’esercito messicano in diverse occasioni ha insistito affermando che continuare a diffondere l’idea secondo cui il Batallón 27 sia implicato nella sparizione dei 43 studenti altro non è che una provocazione; mentre l’incaricato alla sicurezza insiste spiegando che i prossimi comizi elettorali si realizzeranno:’’Llegaron a ser desalojadas siete juntas electorales, las siete ya han sido recuperadas. No veo que haya condiciones para que se pueda alterar el proceso electoral’’.
La repressione autoritaria ha raggiunto anche la comunità accademica: per decreto della Secretaria de Gobernación è stato chiuso l’accesso alla Galera 1 dell’Archivo General de la Nación (AGN), in cui lavoravano centinaia di storici alla ricerca di dati di sparizione forzata degli anni 70. Nell’AGN ci sono gli archivi della c.d. ‘’Guerra Sucia’’.
La Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNHD) ha emesso oggi una dichiarazione: dopo Ayotzinapa in Messico non siamo più gli stessi. I familiari dei 43 ragazzi, non ricevendo nessun aiuto dalla CNHD, hanno viaggiato in Caravana fino alla Comisión Interamericana e si trovano oggi negli USA per realizzare proteste ed azioni.
A 6 mesi dalla sparizione, Peña Nieto ha lanciato un appello alla partecipazione alle prossime elezioni, e ha dichiarato che ‘’a giugno avranno luogo i comizi più controllati e trasparenti della nostra democrazia’’. Nel messaggio diffuso nella pagina web della presidenza ha dichiarato: ‘’presentiamoci alle urne e riaffermiamo la nostra fiducia verso le istituzioni democratiche, perché con ciascun voto costruiamo un Messico più forte’’.
La democrazia messicana è la ‘’democrazia’’ dei più di 160mila morti, dei 25mila desaparecidos e delle migliaia di sfollati. La nostra democrazia ha convertito il Messico in una fossa clandestina. La sottomissione ai piani statunitensi, con l’applicazione della riforma educativa, del lavoro, energetica, e la forte militarizzazione del paese, hanno messo in evidenza che la nostra democrazia è una ‘’barbarie’’, come detto in diverse occasioni 50 anni fa l’intellettuale marxista José Revueltas.
La storia però è ancora più assurda, e supera le storie di terrore e umore nero. L’Instituto Nacional Electoral (INE) ha scelto uno dei 43 normalisti scomparsi come scrutatore elettorale.
Dal Movimiento de los Trabajadores Socialistas stiamo portando avanti una campagna verso le prossime elezioni in Messico. Pensiamo che questo regime politica sia marcio e irriformabile, e che i lavoratori non debbano votare nessun partito politico del Congresso: né PRI, né PAN, né PRD.
Nel caso del Morena (Movimiento Regeneración Nacional, ndr), anche se si considera un oppositore, nei fatti non ha partecipato a nessuna mobilitazione di ripudio al governo. Come si sa, Andrés Manuel López Obrador ha appoggiato José Luis Abarca, ex sindaco di Iguala e uno dei principali responsabili del massacro del Guerrero. Con la sua strategia utopistica di riformare e democratizzare le istituzioni esistenti, un eventuale rafforzamento del Morena sarebbe solamente funzionale alla legittimazione di questo regime assassino.
Dobbiamo sostenere l’appello dei familiari degli studenti normalisti spariti e ripudiare il processo elettorale. A queste elezioni i lavoratori e le fasce più povere non hanno alternativa. Annulliamo il nostro voto con il motto #Nosfaltan43!
In Spagna Felipe González ha inaugurato le sue nove proteste contro il governo Venezuelano.
Sempre dalla Spagna, negli anni scorsi, creò abbastanza danni al Venezuela quando divenne socio di Carlos Andrés Pérez che gli regalò la linea aerea Viasa (Venezolana Internacional de Aviación, Sociedad Anónima), un esempio di buone-pratiche aziendali per tutto il mondo. Fu durante il primo mandato presidenziale di Carlos Andrés Pérez (amico e socio d’ affari di Felipe González ) che Viasa venne definitivamente nazionalizzata.
Viasa andò in crisi, e iniziò a regalare biglietti di cortesia in Prima Classe a funzionari statali e loro familiari. Lo stesso presidente Pérez, invece di utilizzare l’aereo presidenziale (un Boeing 737-200), preferiva servirsi della flotta dei DC-10-30 di Viasa per i suoi ricorrenti viaggi di stato. Eppure Felipe González (sempre in combutta con il presidente Pérez) dilapidò tutto il patrimonio dell’ azienda che fu costretta a chiudere.
Non pagò mai i piloti, le hostess, i lavoratori, i tecnici… Nonostante ciò, l’ex presidente Colombiano Felipe González, legato alla peggiore oligarchia colombiana (spesso in combutta con i narcotrafficanti), attacca il Venezuela. L’oligarchia che domina il potere in Spagna ha terrore dell’idea di una Democrazia Bolivariana, di una democrazia reale, diretta, basata sulla cittadinanza attiva, una democrazia popolare. Per questa ragione questo “signorotto” che vive di lobby internazionali ed è coordinatore dell’asse Bogotà-Madrid, nonché cittadino colombiano, non desidera che i venezuelani esercitino i loro diritti alla sovranità e l’autodeterminazione. Non desidera che il Venezuela abbia potere, desidera che l’abbiano solo i suoi quattro soci per spartirsi le ricchezze delle industrie petrolifere venezuelane. Felipe González, conosciuto anche come mister X, è anche sospettato (tra i principali sospettati) mandanti dei GAL, delinquenti (mercenari) contrattati e stipendiati dal Governo Spagnolo per ammazzare militanti dell’Eta. In realtà furono condannati vari amici, conoscenti e subordinati di Felipe González per aver agito a piede libero e senza il suo consenso dalla Colombia, nell’ organizzazione di attentati ed agguati. Intanto in Spagna continua a governare la destra franchista (tutti diretti discendenti di vecchie famiglie franchiste) che vive tra cocktail, ripartendo commissioni tra parenti ed amici, vivendo a spese di chi lavora e soffre.
Tutto mentre si creano varie frange giovanili xenofobe ed in “aria” di neo-nazismo, la disoccupazione aumenta, giunta al 23,6% solo nel 2012.
Il Gruppo dei 77 + Cina esprime il rifiuto della recente decisione del governo degli Stati Uniti d’America di ampliare le sanzioni unilaterali contro il governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, stabilite attraverso un Decreto Esecutivo firmato dal Presidente Barack Obama il 9 Marzo 2015, in cui si dichiara “un’emergenza nazionale a causa della minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti rappresentata dalla situazione interna del Venezuela”.
Allo stesso modo, ribadisce l’importanza della Dichiarazione adottata durante il Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Gruppo dei 77 + Cina, riunitosi a Santa Cruz de la Sierra, in cui si rifiuta fermamente l’imposizione di leggi e regolamenti ad effetto extraterritoriale e di ogni altra misura economica coercitiva, incluse le sanzioni unilaterali contro i paesi in via di sviluppo.
Il Gruppo dei 77 + Cina, deplora la misura e ribadisce il suo fermo rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Inoltre, il Gruppo dei 77 + Cina pone anfasi sulla necessità di rispettare il diritto internazionale, così come i principi e i propositi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite e nel Diritto Internazionale, in riferimento alle relazioni d’amicizia e cooperazione tra gli Stati e in conformità alla Carta delle Nazioni Unite. Il G-77 + Cina, sottolinea il contributo positivo del Venezuela nel rafforzamento della cooperazione Sud-Sud, della solidarietà e delle relazioni d’amicizia tra i popoli e le nazioni per promuovere la pace e lo sviluppo.
Il Gruppo dei 77 + Cina, esprime solidarietà e appoggio al governo venezuelano, colpito da queste misure che non contribuiscono, in alcun modo, al dialogo politico ed economico e alla mutua intesa tra i paesi. Inoltre, esorta la comunità internazionale ad adottare misure efficaci ed urgenti atte ad eliminare l’uso di misure economiche coercitive unilaterali contro gli Stati e in particolare contro i paesi in via di sviluppo.
Il G-77 + Cina, lancia un appello al governo degli Stati Uniti affinchè valuti e implementi soluzioni alternative di dialogo con il governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, basate sul principio di rispetto della sovranità e dell’autodeterminazione dei popoli. Di conseguenza, chiede l’abrogazione del suddetto ordine esecutivo.
Nel suo libro “La CIA in Spagna”, il giornalista d’inchiesta Alfredo Grimaldos assicura che l’ascesa al potere del socialista Felipe González come presidente del Governo spagnolo nel 1982, fu in realtà l’alternativa “disegnata e controllata” dalla Cia per mantenere la tutela sulla Spagna,
Il libro di Grimaldos, pubblicato nel 2006, afferma che l’attuale Partito Socialista Obrero Español (PSOE) non nacque da una vera e propria base sociale, ma che fu creato, modellato e finanziato dalla CIA nordamericana, attraverso fondazioni del Partito Socialdemocratico di Willi Brandt della Repubblica Federale Tedesca: “I servizi segreti nordamericani e la socialdemocrazia tedesca si diedero gelosamente il turno nella direzione della Transizione spagnola, con due obiettivi: impedire una rivoluzione dopo la morte di Franco e annientare la sinistra comunista. Questo lavoro sottile di costruire un partito “di sinistra” precisamente per impedire che la sinistra arrivi al potere in Spagna, è opera della CIA, in collaborazione con l’Internazionale Socialista”.
Alfredo Grimaldos ha pubblicato un nuovo libro: “Claves de la transición 1973-1986 para adultos” (Editorial Peninsula). Il libro inizia con la seguente frase: “Il Franchismo non è una dittatura che finisce con il dittatore, ma una struttura di potere specifica che integra alla nuova monarchia”.
In un’intervista pubblicata per il giornale Público.es, Grimaldi risponde a una domanda: “Fino a che punto la CIA tutela la Transizione?”
Quando Nixon arriva in Spagna nel 1970 trova un Franco molto invecchiato. Nixon torna preoccupato. Per loro era molto importante mantenere la Penisola Iberica nel sistema di alleanze. Quindi, gli dica a Vernon Walters, il suo uomo di fiducia, che vada in Spagna per vedere cosa potrebbe succedere dopo la morte del dittatore. Franco si rese conto immediatamente di quello che accadeva e disse a Walters che era tutto sotto controllo e ben controllato, che l’Esercito si schiererà dalla parte di Juan Carlos I e che il suo principale monumento non è la “Valle de los Caidos” ma la classe media spagnola che farà da materasso per impedire una rivoluzione.
Grimaldos fa a pezzi l’immagine officiale che si ha della Transizione Spagnola, segnalata costantemente come riferimento esemplare del passaggio da una dittatura alla maturità della vita democratica e in questo contesto, al ruolo svolto da quel giovane lottatore, intelligente, carismatico, eloquente, a cui il giornale Pravda, quando era ancora organo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, riempirà d’elogi sul finire degli anni ’80 per la sua “flessibilità e pragmatismo”.
Risulta quindi che il faro della chiamata Transizione fu costruito sull’inganno e la manipolazione? Così sembrerebbe dalla testimonianza, pubblicata nel libro di Grimaldi, del generale Manuel Fernández Monzón, contatto dei servizi segreti del franchista Luis Carrero Blanco con la CIA: “Non è vero quello che si è detto sulla Transizione. Come che il re fu il motore. Né Suárez né lui furono i motori di niente, solo pezzi importanti di un piano concepito all’altro lato dell’Atlantico. Fu tutto disegnato dalla CIA e dalla Segreteria di Stato”.
Recentemente, l’ex candidato presidenziale venezuelano e governatore di stato Miranda, Henrique Capriles Radonski, informò attraverso Twitter d’essersi incontrato in Bolgotá, Colombia, con l’ex presidente del governo spagnolo Felipe González, che fu “amico intimo” dell’ex presidente venezuelano Carlos Andrés Pérez, promotore delle politiche neoliberiste in Spagna e in America Latina.
Intervistato da una radio uruguaiana, l’analista James Petras ha risposto così alla domanda sulla decisione di Felipe González di assistere a Henrique Capriles:
“Felipe Gonzalez lavorava per Álvaro Uribe, l’assassino, narco-presidente della Colombia. Felipe González appoggiava i gruppi squadroni della morte in Centroamerica, quando fui in Spagna e Grecia, ebbi l’occasione di vedere con i miei occhi come i partiti di destra del Salvador e del Guatemala ricevevano l’appoggio di Felipe González. Quindi, il fatto che stia con Capriles non mi sorprende perché Felipe González non è venduto, ma affittato. Qualsiasi governatore o dirigente della destra può controllarlo con una tariffa. Servono per lo meno 300 mila dollari per ricevere i “consigli” di Felipe González. Non è semplicemente un reazionario, ma uno dei più corrotti e immorali, in tutta la storia della socialdemocrazia europea”.
Per il mercoledì delle Narrazioni tossiche: Carlos Alberto Montaner firma questo articolo per il Miami Herald – 16 marzo 2015 – in cui ci dimostra come gli specchi, più che fornire appigli per scalare la parete della menzogna, la riflettono.
Venezuela is indeed a risk to the security of the United States, not because it violated the democrats’ human rights — that was the excuse — but because of three activities that are codified in the doctrinary definition that indicates where the danger to U.S. society begins or intensifies.
Il presidente Obama ha firmato la scorsa settimana un ordine esecutivo che proclama il regime in Venezuela un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. Perché? Perché questi ha violato i diritti umani dell’opposizione democratica nel paese. In seguito, Obama ha imposto sanzioni contro numerosi ufficiali militari e funzionari di governo.
Strana mossa, fatta poche settimane dopo aver iniziato ad abolire le sanzioni contro la dittatura cubana, la quale, per l’ultima metà del secolo o anche di più, ha maltrattato i dissidenti con la stessa (o maggiore) brutalità che è stata mostrata dal governo di Nicolás Maduro in Venezuela.
A margine, c’è una questione di gerarchie. Cuba è la nonna. Il Venezuela si comporta come se sia al comando del consiglieri cubani che guidano il paese. Queste sono le competenze che Cuba vende al Venezuela: servizi segreti, controllo sociale e pugno duro nella “governabilità”.
Naturalmente, Fidel e Raúl Castro hanno immediatamente reso pubblica un’appassionata difesa di Maduro. I fratelli Castro sanno perfettamente che i 13 milioni di Dollari annuali in sussidi, aiuti e affari commerciali forniti dalla loro grande colonia politica valgono di più delle recenti dimostrazioni di affetto e promesse ricevute dagli stati Uniti.
“Il Venezuela non è solo”, ha dichiarato una nota ufficiale cubana, suggerendo che se sì arriverà ad un conflitto armato, i soldati della patria cubana non rimarranno a guardare.
Certo, sono solo parole, atteggiamenti per i balconi. I Castro sanno che gli Stati Uniti non sono minimamente interessati a passare alla violenza per liquidare la “rivoluzione” bolivariana. Nessuno invaderà il Venezuela.
Ciò che è generalmente ignorato è il perché Obama abbia preso questa contraddittoria decisione che aiuta solo a dare a Maduro un pretesto per incrementare il sentimento nazionalista, la repressione e mescolare il nido del vespaio sudamericano.
Eppure, ci sono buone ragioni dietro questa iniziativa. Il Venezuela è davvero un rischio per la sicurezza degli Stati uniti, non perché ha violato i diritti umani – questa era la scusa – ma a causa di tre attività che sono codificate nella definizione dottrinale che indicano dove il pericolo per la società nordamericana inizia o si intensifica.
Chiunque voglia conoscere la visione che prevale a Washington sulla questione dovrebbe leggere il libro Reconceptualizing Security in the Americas in the 21st Century, con particolare attenzione al capitolo intitolato Venezuela: tendenze nel crimine organizzato, scritto dall’analista Joseph M. Humire.
Il movimento fondato da Hugo Chávez ed ereditato da Maduro ha oltrepassato tre linee di confine:
Primo, la complicità venezuelana coi terroristi islamici in Iran. Il governatore dello stato di Aragua, Tareck El Aissami, di origini arabe ed ex ministro dell’Interno, ha detto di avere forti relazioni con il governo iraniano. Questi ha usato la sua posizione per creare una rete di relazioni con i terroristi in Medio Oriente, finanziati dal traffico di droga.
Il secondo limite oltrepassato a Caracas è, precisamente, relativo al traffico di droga. Ci sono generali venezuelani che sono coinvolti fin sopra i capelli in questo torbido mercato. Su 700 tonnellate di cocaina prodotte annualmente nel mondo, 300 vanno attraverso il Venezuela fino in Europa passando per l’Africa, o arrivano negli Stati Uniti tramite l’America Centrale. Il presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, è stato accusato di essere il capo del principale cartello.
Terzo, il diffuso riciclaggio di soldi sporchi. Petróleos de Venezuela, la compagnia petrolifera statale meglio conosciuta con l’acronimo PDVSA, è dove avvengono la maggior parte delle transizioni sospette, incluse le emissioni di obbligazioni. Più che un’attività, la PDVSA è il nascondiglio di Ali Babà, ma con più di 40 ladroni. Quei soldi servono per corrompere politici, comprare consenso e pagare i criminali per i loro servigi.
La Casa Bianca sa tutto questo nel dettaglio.
E’ stata istruita dai suoi diplomatici, dai servizi segreti e dai disertori. Walid Makled García, venezuelano a capo del traffico di droga, paragonabile a Pablo Escobar al suo apice, fu intensamente interrogato dagli agenti della DEA prima che il suo carceriere colombiano lo deportò in Venezuela.
“Il Turco”, come era chiamato, cantava La Traviata, spifferò tutto. L’ultimo membro del coro è Leamsy Salazar, braccio destro di Cabello e Chávez, il quale chiese asilo politico negli Stati Uniti e confermò tutto questo. Contribuì inoltre con nuove informazioni. Potrebbe non essere stato detto abbastanza che “il Venezuela non è un pericolo, ma una seccatura”.
A dire il vero, il Venezuela è un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e per tutto l’emisfero. L’errore di Obama non fu di affrontare i suoi nemici e chiamare le cose con il proprio nome, ma di scegliere un’accusa indiretta, formulata malamente, così che molte persone non hanno potuto capirla. Il presidente voleva soddisfare tutti, ma è riuscito a fare esattamente il contrario. Un peccato.
Gli Stati uniti hanno minacciato sanzioni alla Germania. Per gli oltre 350 fermi dei manifestanti che hanno protestato contro la Bce nei giorni scorsi? Non scherziamo: secondo quanto ha dichiarato il vice-cancelliere tedesco, le sanzioni Usa al potente alleato europeo sarebbero arrivate in caso il governo tedesco avesse dato asilo all’ex consulente Cia Edward Snowden, che ha divulgato il grosso scandalo del Datagate, e che poi ha trovato rifugio in Russia. Com’è noto, Snowden ha fatto conoscere l’estensione planetaria dello spionaggio Usa, il cui intreccio economico-politico va ben oltre la sempiterna retorica sulla “lotta al terrorismo” che giustifica le aggressioni neocoloniali. Tanto che la minaccia è stata quella di interrompere le relazioni tra servizi segreti proprio sul tema della sicurezza: per ritorsione, gli Stati uniti non avrebbero più avvertito la Germania di eventuali attentati in arrivo nel loro paese… Una bella lezione di moralità da parte di un governo che impone sanzioni al Venezuela bolivariano in nome della “difesa dei diritti umani”.
In America Latina – ha rivelato Snowden -, gli Usa hanno molti punti di intercettazione clandestina e basi militari sotto copertura, pronti a tessere le proprie trame nei punti considerati a rischio per i propri interessi. In barba alla tanto sbandierata difesa della privacy. Le parole dell’ambasciatore statunitense all’Osa, secondo il quale il suo paese non complotta contro il governo bolivariano, lasciano quindi il tempo che trovano. E ha ragione il governo Maduro a moltiplicare gli appelli alla solidarietà internazionale per far capire al Nordamerica che “non può passare”.
Lo scandalo del Datagate ha mostrato che le agenzie per la sicurezza Usa hanno spiato la presidente brasiliana Dilma Rousseff, e anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, tanto per non farci dimenticare che, se si tratta del portafoglio, gli amici non contano. Soprattutto, gli spioni nordamericani hanno messo il naso (e le zampe) negli interessi petroliferi brasiliani e osservato da vicino quelli del Venezuela bolivariano. Con quel livello di pervasività e di controllo delle informazioni, difficile escludere la messa a segno di colpi bassi nel mercato finanziario e nei corsi del petrolio, attualmente in forte calo. Una situazione che ha penalizzato un paese ancora troppo dipendente dai proventi del petrolio, come il Venezuela e che si trova al centro di una rete di erogazione solidale ai paesi dell’America latina e dei Caraibi. Difficile dar torto ai presidenti progressisti dell’America latina che, dal Brasile all’Argentina, al Venezuela, dal Nicaragua, alla Bolivia, all’Ecuador, denunciano un attacco concentrico dei poteri forti.
Lo schema utilizzato è sempre lo stesso: quello di innestare le cosiddette “rivoluzioni colorate” contro i governi antipatici a Washington, modulate a seconda della storia e dei problemi esistenti nello scacchiere mondiale e nei diversi paesi. Il tono d’avvio, è sempre dato da qualche gruppo di “pacifici studenti” modello Otpor nella ex Jugoslavia, ben finanziato e ben amplificato dalla propaganda internazionale attraverso le reti sociali. Anche la genericità dei temi è un modulo ricorrente: si protesta contro “la corruzione, il regime, per la libertà di stampa, la liberazione dei prigioni politici, e via discorrendo”.
E così, in Venezuela, i golpisti diventano improvvisamente campioni di democrazia, mentre in Messico, o in Spagna o in Germania, chi protesta per chiedere “pane, lavoro, un tetto e dignità” può essere manganellato e imprigionato in nome di quella stessa democrazia (borghese).
E così, anche in Brasile, sarebbero stati due sconosciuti “gruppi di studenti di classe media” a lanciare in internet la poderosa manifestazione contro il governo Rousseff che si è vista di recente, e che ha costituito una vera e propria prova di forza delle destre brasiliane.
Un ricatto incombente soprattutto sulle forze dell’alternativa, obbligate nei momenti di emergenza a silenziare la critica al moderatismo e agli errori di chi li governa per evitare un “rimedio” ben peggiore del male. E parliamo principalmente dell’involuzione e delle pecche del PT in Brasile, che già hanno vita lunga. Non a caso, movimenti e sinistra hanno dato a Rousseff un voto sotto condizione, aspettandosi passi avanti significativi.
Ma anche le destre e i loro padrini a Washington intendono condizionare con ben altri sistemi le politiche della nuova America latina: per accerchiare o depotenziare quei paesi, come il Venezuela, che più hanno rimesso in questione i rapporti di proprietà capitalistici.
Le prese di posizione del vicepresidente uruguayano Raul Sendic, molto morbide nei confronti di Washington nel giudicare l’attacco al Venezuela, non lasciano ben sperare sul governo di Tabaré Vazquez, succeduto a Mujica. E se nella Unasur non ci fossero Ecuador e Bolivia a controllare la solidarietà col Venezuela, il controllo passerebbe all’indirizzo prevalente di Vazquez (presidente pro-tempore) e a quello del segretario generale, il colombiano Ernesto Samper, il cui paese – insieme al Perù e al Cile – appartiene all’asse portante della neoliberista Alleanza del Pacifico a guida Usa (altro caposaldo, il Messico).
La partita che si gioca in Venezuela è determinante, sia sul piano concreto che su quello simbolico e sul piano dei rapporti continentali. Così com’è determinante la tenuta di Cuba e la sua ferma intenzione di non cedere ai ricatti del “disgelo” con gli Usa, consegnando “la testa” del Venezuela.
L’imperialismo ce la sta mettendo tutta per volgere a suo vantaggio la situazione in tutti e tre i piani: sul piano economico, sul piano simbolico e su quello delle relazioni internazionali. Quella che si è vista l’anno scorso, è stata la rivolta dei ricchi, non di chi protesta per chiedere “pane, lavoro, un tetto e dignità”. Le code che si vedono a Caracas non sono quelle dei poveri alla Caritas in Italia, in Spagna, in Grecia, che fanno fatica a sopravvivere. Nonostante la guerra economica contro il governo Maduro, la gente in coda ha di che comprare le merci che arrivano, e anche in modo compulsivo. Nonostante la crescita dell’inflazione, i salari e le pensioni, in Venezuela, sono aumentati, e la povertà estrema è diminuita: segno che il governo non ha messo al centro gli interessi del “mercato”, ma quello dei meno favoriti. Eppure la propaganda mediatica presenta le cose esattamente al contrario.
“Siamo una speranza, siamo il governo della strada, l’America latina del XXI secolo sarà lo scenario di grandi trasformazioni”, ha detto Nicolas Maduro. E tuttavia, a fronte di una congiuntura economica poco favorevole, la pressione sul Venezuela bolivariano sarà tanto più pesante quanto più prevarrà un indirizzo moderato nelle alleanze regionali dell’America latina. Il discorso vale anche per la politica interna del Venezuela. Le destre dicono che l’attacco di Obama fa il gioco del chavismo, perché ricompatta l’unità interna. Ma è davvero così? Il richiamo al nazionalismo e alla difesa della patria, amplificati dopo le ritorsioni Usa e il pericolo di un’aggressione militare, comportano anche dei rischi: essere solo “patrioti” e non socialisti a 16 anni dall’inizio del “proceso”, non è un ritorno indietro? Quanti opportunisti possono saltare sul carro per poi debilitare la rivoluzione dall’interno? E che dire di quei funzionari che hanno portato all’estero finanze sottratte al bene pubblico? Fuori e dentro il Psuv – che per fortuna sta mostrando grandi segni di rinnovamento – le denunce di carenze e inadempienze che provengono dalla parte più cosciente del socialismo bolivariano devono trovare una sponda e senza prestare il fianco alla destra. Altrimenti, si fa il gioco di quelli che vorrebbero proporre la cosiddetta “terza via” (moderata) per raccogliere i voti dei delusi o degli indecisi. Il socialismo non ha come obiettivo quello di rimpinguare le tasche dei nuovi ricchi.
Anche se indossano una camicia rossa.
Importanti riflessioni sulle proteste di questi giorni in Brasile contro la presidente Dilma Rousseff .
In Brasile c’è una rabbia generalizzata contro il PT, che è piuttosto una rabbia indotta dai mezzi di comunicazione, e non si tratta tanto di odio nei confronti del Partito de Trabajadores quanto di odio nei confronti di quaranta milioni di poveri che sono stati inclusi e che occupano ora gli spazi che prima erano riservati alle classi benestanti
Domenica scorsa, circa 1,7 milioni di persone hanno partecipato a diverse manifestazioni convocate dall’opposizione in ventisei capitali provinciali del Brasile e nella capitale federale Brasilia chiedendola destituzione della presidente Dilma Roussef. La moltitudine la responsabilizza della corruzione di Petrobras , la impresa petrolifera statale e privata, ma dietro tutto questo c’è la mano nera esperta in rivoluzioni che ora sta operando acutamente in Brasile.
Recentemente la Suprema Corte de Brasil autorizzò l’apertura delle investigazioni su cinquantuno politici, tra questi due governatori e trentaquattro legislatori, incluso il presidente del Senado, Renan Calheiros e quello della Cámara Baja, Eduardo Cunha. Apparentemente tutti erano coinvolti nella rete di corruzione di Petrobras che ha dirottato dall’impresa, tra il2004 e il 2012, circa 3700 milioni di dollari attraverso il riciclaggio di denaro e sovrafatturazione in lavori e contratti. Il supposto autore di questa rete, ex direttore dei servizi di Petrobras, Renato Duque è già stato arrestato e sta collaborando con gli investigatori.
Certamente le proteste in termini generali mostrano la solidità della democrazia in Brasile, recuperata trenta anni fa dopo ventuno anni di dittatura militare (1964-1985), e a riconoscerlo è stata la stessa Rousseff. Tuttavia i cortei di domenica scorsa non sono stati espressione di una reazione spontanea del popolo che espressa la propria indignazione, ma sono stati preparati ed organizzati dalla destra nazionale sconfitta alle elezioni presidenziali nel 2002, 2006, 2010 e 2014. Le sue parole d’ordine durante questi dodici anni di governo del Partito de Trabajadores (PT) continuano ad essere sempre le stesse : Fuera Lula ! Fuera Dilma ! Fuera PT !
Il teologo e filosofo brasiliano Leonardo Boff, nelle sue analisi delle recenti proteste, ha affermato che “in Brasile c’è una rabbia generalizzata contro il PT, che è piuttosto una rabbia indotta dai mezzi di comunicazione, e non si tratta tanto di odio nei confronti del Partito de Trabajadores quanto di odio nei confronti di quaranta milioni di poveri che sono stati inclusi e che occupano ora gli spazi che prima erano riservati alle classi benestanti”. Come ha detto lo scrittore e giornalista argentino José Steinsleger, invocando il film del famoso cineasta brasiliano Glauber Rocha”El León de 7 Cabezas” (1970), le sette teste dell’opposizione in Brasile rappresentano i banchieri, i latifondisti, gli imprenditori, i tecnocrati, i mezzi di comunicazione, i narcos e le sette religiose impegnati a rovesciare “il processo di cambiamento e giustizia sociale più profondo e prolungato che ha vissuto il Brasile dai tempi di Getulio Vargas e Joao Goulart (1951-1964)”.
La destra brasiliana non ha mai potuto accettare questi dodici anni del governo PT e la perdita del controllo del paese, della società e della nazione. Come non ha mai voluto riconoscere i successi dell’ultima decade dei governi di Lula da Silva e di Dilma Rousseff. La povertà relativa è scesa dal 36.4 % del 2002 al 18.6 % del 2014 e la povertà estrema dal 15 al5.29 %. Milioni di persone sono state beneficiate con abitazioni popolari,sussidi, accesso alla sanità e all’educazione; il salario minimo è stato aumentato e la disuguaglianza è diminuita.
La destra brasiliana non ha mai potuto accettare questi successi nonostante i governi di Lula e Dilma non abbiano osato finirla con il neoliberalismo, anche se sono riusciti a modificarlo leggermente ed a creare condizioni per la crescita economica con una redistribuzione della ricchezza più equa. Per questo continua ad aumentare le pressioni sul governo del PT tentando di screditarlo. La classe media partecipa a questo gioco, ed è influenzata dai mezzi di comunicazione guidati dall’oligarchia.
I mezzi di comunicazione brasiliani, in mano a quattordici gruppi familiari che possiedono il 90% del mercato della comunicazione, hanno assunto il ruolo di principale partito d’opposizione. Lo ha riconosciuto nel2010 la direttrice del quotidiano conservatore nazionale Folha de Sao Paulo,Judith Brito, che ha segnalato che “dato che l’opposizione si trova profondamente debilitata, sono i mezzi di comunicazione che di fatto portano avanti il lavoro. A volte con molta immaginazione”.
Ciò che dice Brito significa, nel mondo del giornalismo,distorcere la realtà accomodandola agli interessi della elite e convertire il falso nel vero, e qualsiasi errore o difficoltà del governo in crimine o inattitudine ad assecondare il malcontento popolare. A tali sedicenti difensori della democrazia non importa rovesciare, utilizzando tutti i mezzi a disposizione, un governo democraticamente eletto dalla maggioranza della popolazione.
Le manifestazioni del 15 marzo hanno confermato questi piani dell’opposizione, che nemmeno è stata capace di elaborare e presentare un piano coerente per indirizzare l’economia nazionale in un momento in cui attraversa una fase di forti difficoltà, ne tantomeno è riuscita ad individuare i mezzi con i quali contrastare la corruzione. Il principale candidato oppositore per il Partido Social Democracia Brasilena (PSDB), Aecio Neves, che subì lasconfitta nelle elezioni presidenziali del 2014, ha arringato i manifestanti per rovesciare la presidente Rousseff, assestare i programmi sociali e non permettere che il Brasile diventi una nuova Venezuela, secondo quanto ha detto.In totale circa venti organizzazioni, movimenti e partiti sono scesi in piazza per esigere la destituzione dell’attuale governo, e tra loro i movimenti Vem Para Rua (Ven a la Calle), conosciuto dal 2013 come uno degli organizzatori delle proteste contro la Coppa del Mondo, Revoltados Online, che ha cominciatola sua militanza undici anni fa lottando contro la pedofilia e finendo con l’appoggiare l’idea di un governo militare, e Movimiento Brasil Livre che riunisce molti universitari.
Nemmeno sono mancati i Legalistas, e la loro idea di un ritorno dei militari al potere per “calmare l’economia e terminare la corruzione”, con le parole d’ordine “SOS Fuerzas Armadas”. Sembra proprio che questi settori abbiano dimenticato il golpe del 1964 e la conseguente repressione degli oppositori, che continuò fino al 1985.
Tutti questi sostenitori del colpo di Stato dovrebbero rivedersi i documenti del dipartimento di Stato nordamericano del 1967-1977 che il vicepresidente Joe Biden ha consegnato a Dilma Rousseff durante la sua visita per la Coppa del Mondo. In questi dispacci si menziona il fatto che i brasiliani hanno sviluppato un nuovo “sistema di tortura basato sulla coazione psicofisica per intimidire e terrorizzare i sospettosi”. Quello che non è menzionato sui documenti statunitensi è che l’inventore di questo sistema è stato il tristemente famoso torturatore ed ex agente dell’FBI Dan Mitrione, il padre della “Silla de Dragón” che dal 1960 al 1967 andò in Brasile a perfezionare la sua diabolica arte e che poi operò in Uruguay dove fu giustiziato dai tupamaros. In questi stessi documenti l’ambasciatore statunitense in Brasile, William Rountree, raccomandava cinicamente al dipartimento di stato di “prendere in considerazione la sensibilità e l’orgoglio nazionale dei brasiliani ed evitare tentativi di pressione sul governo rispetto alla tortura, per non danneggiare le relazioni”. Dimenticare tutto questo sarebbe un crimine.
Tuttavia, l’opposizione senza poter contenere la sua rabbia di classe non prende in considerazione le conseguenze di un colpo di Stato. Simultaneamente, i suoi colleghi delle elites globalizzate internazionali e in particolare gli “illuminati” globalizzatori nordamericani vedono la possibilità di finirla con il Brasile come paese sovrano, allontanarlo da UNASUR e CELAC e debilitare il gruppo BRICS che rappresenta un pericolo per l’egemonia degli USA e del sistema economico mondiale creato dal Fondo MonetarioInternazionale, la Banca Mondiale e la Federal Reserve americana.
Nemmeno dobbiamo dimenticarci le rivelazioni di Snowden rispetto al Brasile: “Whats’s Behind Hidden CIA Base in Brazil”. In questo documento l’ex tecnico NSA parla dell’interesse geopolitico del nordamerica verso il Brasile e specialmente verso i suoi giacimenti di petrolio recentemente scoperti in mare, che arrivano a contenere intorno ai 100.000milioni di barili. Il problema è stato che tanto il governo Lula quanto quelloDilma ha preferito firmare contratti con la corporazione cinese SINOPEC invece che Chevron. A maggio del 2013 il vicepresidente USA Joe Biden, durante una visita in Brasile, cercò di persuadere invano la presidente Rousseff a lasciar entrare le imprese energetiche statunitensi nel mercato brasiliano.Curiosamente, due mesi dopo la sua fallita visita, cominciarono ondate di proteste sempre più intense contro il governo del Partido de Trabajadores. L’opposizione ha già annunciato il prossimo corteo per il 12 aprile:”No nos dispersemos!”.
Secondo il ministro di Giustizia brasiliano José Eduardo Cardoso, “la richiesta di destituzione contro Dilma puzza di golpe”. La stampa internazionale sta divulgando ripetutamente notizie sul fallimento economico del governo Rousseff, la corruzione, l’isolamento della presidente e il malcontento popolare, occultando i successi del suo governo durante questa decade. Lentamente si stanno creando condizioni per una “revolución de colores” e per far tornare il Brasile tra le braccia degli Stati Uniti. Fino ad ora non si sa della partecipazione diWashington nell’organizzazione delle manifestazioni. Tuttavia, circa 400 agenti di differenti servizi d’intelligenza statunitense sarebbero arrivati recentemente alle ambasciate nordamericane in Brasile, Bolivia, Venezuela, Ecuador,Argentina e Cuba, secondo quanto denunciato dal periodista venezuelano José Vicente Rangel.
Si sta cucinando qualcosa in questo paese. Nel caso di Dilma Rousseff il suo destino verrà deciso il prossimo settembre durante la sua visita a Washington. Mentre sulla possibile reazione del popolo brasiliano alla decisione dell’opposizione di destituire la presidente è difficile esprimersi esattamente, per il momento. Il popolo, nell’espressione del poeta inglese Alexander Pope, “è una fiera di multiple teste” ed anche loro stanno organizzando cortei ed azioni di appoggio.
Di Luis Britto García. Traduzione di Davide Angelilli
Come può il Venezuela essere considerata una “minaccia straordinaria e inusuale alla sicurezza nazionale e alla politica estera statunitense? Siamo un paese di media estensione, con modesto sviluppo industriale, armamento convenzionale, esercito con moderato numero di effettivi e che, da quando liberammo quelle che oggi sono cinque repubbliche a inizio del secolo XIX, mai ha aggredito nessun popolo.
Venezuela minaccia con l’esempio. L’impero vive del saccheggio delle risorse naturali delle industrie basiche delle nazioni periferiche. Venezuela è l’eloquente dimostrazione di che un paese può utilizzare i due elementi a beneficio del suo popolo per vie democratiche e costituzionali.
L’impero ricorrerà a otto vie complementari per annichilare il Venezuela. La prima, l’esacerbazione della guerra economica con un bloqueo progressivo per forzare un risultato avverso al bolivarismo nelle elezioni per i Potere Legislativo. La seconda, utilizzare questa maggioranza desiderata per un golpe di Stato parlamentario in stile Paraguay. La terza, l’intensificazione del terrorismo dei paramilitari e mercenari per simulare uno scenario da “guerra civile”. La quarta, per coronare questo montaggio proverà ad assassinare il presidente o un attentato di falsa bandiera. La quinta, un intervento militare di un altro paese della regione. La sesta, un’aggressione diretta con truppe e macchine imperiali, dalle basi che già stanno in America Latina e il Caribe. La settima, la campagna mediatica per nascondere e deformare la natura delle precedenti aggressioni, al paese e al mondo. L’ottava, l’aggressione diplomatica per tirare fuori dagli organi internazionali verdetti di condanna al paese.
Come salvarci? Combattere la guerra economica che demoralizza a la cittadinanza, con l’assunzione statale del controllo delle importazioni basiche, con implacabili sanzioni contro imprese corrotte e complici in frodi cambiarie, speculatrici, e di contrabbando d’estrazione, e con la promulgazione di leggi per regolare delitti finanziari, tradimento alla patria e infrazioni di sicurezza. Vincere le elezioni parlamentari con reputazione immacolata, non coinvolti in delitti né corruzioni.
Così come terziarizza la sua economia, gli Stati Uniti terziarizzano i suoi eserciti. Prima l’integrano con mercenari reclutati trai sui ispani, afroamericani, gli emarginati; dopo, fonda finanzia e equipaggia organizzazioni terroriste composte da sicari e terroristi sotto salario come Al Qaeda e El Daesh. Probabilmente, l’aggressione al Venezuela si terziarizzerà attraverso di un terzo paese o delle loro forze paramilitari, che hanno infiltrato profondamente la nostra società. Molti degli integranti furono arrestati attuando durante le ondate terroriste del 2014. È opportuna un’azione congiunta tra organismi di sicurezza e movimenti sociali per localizzare e neutralizzare questi invasori silenziosi prima che tornino a mobilitarsi. In ogni caso, non è sicuro il trionfo degli aggressori.
Potenziamo le misure di sicurezza per dirigenti e figure chiavi, così come per installazioni e persone statunitensi. Convinciamo a paesi vicini, che da mezzo secolo combattono infruttuosamente un’insurrezione interna, che sarebbe impossibile vincere contro una sollevazione interna e un’altra esterna.
Nelle aggressioni imperiali, l’esercito convenzionale del paese vittima è spesso distrutto dopo poche settimane. Quello che decide il conflitto è la resistenza popolare. Il popolo venezuelano non può aspettare che cadano bombe per preparare la difesa. Organizzazioni popolari, movimenti sociali, sindacati, partiti, comunas, cooperative, devono già da ora coordinare con il governo e l’esercito regolare risposte, strategie di sopravvivenza e per preparare il popolo alla guerra.
Abbiamo costruito un sistema di mezzi di servizio pubblico, comunitari, alternativi che ci permettono maneggiare la battaglia comunicativa interna. Bisogna riformare e dinamizzare senza esitazioni questo sistema per portarlo alla sua massima efficacia. Dobbiamo utilizzare i satelliti che disponiamo per portare questo messaggio al mondo.
Venezuela ha fatto quasi più di qualunque altro paese per lo sviluppo di una diplomazia multipolare. Incorporata al Mercosur, motore di organizzazioni integrazioniste latinoamericane come l’ALBA, la Celac e Unasur che escludono a Stati Uniti e Canada. Venezuela ha consolidato relazioni con Asia e Africa e con i paesi Non Allineati. Queste reti diplomatiche hanno un peso negli organismi internazionali e devono essere usate per propiziare nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU il veto di Russia e Cina, impenetrabile scudo contro l’interventi.
Cuba ce l’ha fatta. Noi anche.
Per il mercoledì delle Narrazioni tossiche: articolo di John Hall, apparso sul Daily Mail online lunedì 16 marzo, in cui si dipinge un Venezuela che si appresta ad un attacco militare nei confronti degli Stati Uniti, con tanto di addestramenti militari e rafforzamento dei poteri centrali.
Venezuela has declared the United States to be an ‘imminent danger’ at the launch of two weeks of Cold War-style military drills and parades featuring weapons made in Russia and China
Il Venezuela ha dichiarato essere gli Stati Uniti un “pericolo imminente” al lancio di due settimane di esercitazioni e parate militari, in stile Guerra Fredda, equipaggiati con armi fabbricate in Russia e Cina.
Al grido di “patria socialista” e marchiando gli Usa come “imperialisti”, sabato pomeriggio 80.000 soldati e 20.000 civili sono scesi sulle strade di Caracas per una manifestazione anti-statunitense.
Il parlamento venezuelano ha seguito le proteste di ieri, approvando una legge che consegna all’assediato presidente Nicolas Maduro il potere di legiferare tramite decreti per nove mesi, in faccia a quella che era descritta come la “minaccia statunitense” per le nazioni sudamericane.
Il varo di due settimane di esercitazioni militari arriva appena qualche giorno dopo che Barack Obama ha dichiarato il Venezuela una minaccia per la sicurezza nazionale, limitati i viaggi nel paese e congelato i beni di alcuni cittadini di una nazione alle prese con una diffusa scarsezza di risorse.
Maduro ha richiesto l’espansione dei poteri in risposta alle sanzioni statunitensi ai funzionari venezuelani accusati di violazione dei diritti umani. Critici del governo hanno chiamato la mossa una presa di potere.
Gli Stati Uniti stanno individuando i funzionari di alto rango dell’apparato di sicurezza venezuelano, responsabili di un giro di vite nelle proteste anti governative dello scorso anno e di perseguire accuse contro gli oppositori di governo. Questi saranno privati del permesso di entrare negli Stati Uniti, e i loro beni congelati.
I leader dei governi di sinistra del Sud America si sono espressi in supporto del Venezuela, mentre Washington ha respinto le affermazioni di Maduro, secondo cui gli Usa stanno cercando di danneggiare il suo governo sollecitandolo a concentrarsi sui problemi interni del paese, come la scarsità di cibo e l’inflazione galoppante.
Le due settimane di esercitazioni militari sono largamente riconosciute come il tentativo di Maduro di sollevare il sentimento patriottico nella speranza di migliorare il decadente consenso nei suoi confronti, in vista delle cruciali elezioni di fine anno.
Parlando al Financial Times, il professore di relazioni internazionali all’Università Centrale del Venezuela Carlos Romero ha detto che le dichiarazioni di Washington sulla nazione come minaccia per la sicurezza nazionale “hanno ampiamente giovato il governo venezuelano”.
Romero ha aggiunto che il Venezuela ha usato l’annuncio per suonare la carica in sostegno del governo, tramite una reazione dai modi “esagerati, quasi drammatici”.
Maduro ha precedentemente affermato che gli Stati Uniti, i quali rimangono i più importanti acquirenti del petrolio venezuelano, hanno appoggiato il tentativo di rimuoverlo dal potere.
Nel 2002 un colpo di stato, che ebbe il tacito supporto degli Stati Uniti, spodestò brevemente Hugo Chávez, carismatico mentore di Maduro, nonché suo predecessore.
5 teologi e attivisti dei diritti umani scrivono a Obama riguardo la questione venezuelana.
Gli ambienti religiosi spesso sono fondamentali nel determinare la politica di un paese, in questo testo si coagulano le opinioni di 5 importanti personalità del mondo religioso americano (sia latino che statunitense) che si scagliano apertamente contro l’ordine esecutivo della Casa Bianca di classificare il Venezuela come minaccia per la sicurezza nazionale.
Caro presidente Obama,
ti salutiamo come un fratello, discepolo di Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che ti dobbiamo, come del resto in conformità ai nostri voti, dobbiamo a tutti, compresi quelli che con noi si comportano da nemici.
Cosa ti è successo, caro fratello? Cosa ne è stato dell’intrepido e luminoso Obama che, nel 2008 attraverso la sua campagna presidenziale, ha parlato del cambiamento, di un VERO cambiamento che contemplasse l’adesione del popolo? Tu hai ridato la speranza a milioni di persone, non solo negli Stati uniti ma ovunque nel mondo, a noi compresi. Ci ricordiamo dei tanti sondaggi fatti a persone afroamericane, molte delle quali non erano favorevoli alla tua elezione, non perché non ti amassero o perché non erano d’accordo con i valori che difendevi. Loro ti amavano troppo. Temevano la tua morte per mano del sistema industrial-militare e finanziario, che si sarebbe sicuramente attivato se tu avessi avuto il coraggio di affrontarlo con la tua visione e la tua promessa di riportare gli Stati uniti nella comunità «umana».
Sicuramente saprai che gli Stati uniti da sono sempre il paese più odiato nella storia del mondo, per la loro arroganza e la loro ossessione nazionalista e diabolica, di dominazione planetaria. Contrariamente ad alcuni tuoi predecessori come Ronald Reagan e George W. Bush, che non si sono certo distinti per la loro intelligenza, tu sei senza dubbio una persona dotata di spiccate facoltà intellettive. Di più, hai manifestato un attaccamento a dei valori morali ed etici profondamente ancorati nella tua coscienza ed un’adesione ai valori di Gesù, che di fatto sono i valori di tutti i grandi leader spirituali di ogni religione del mondo. Quello che ci spinge, caro fratello, a scriverti questa lettera, è il vergognoso decreto esecutivo di «urgenza nazionale» che hai adottato il 9 marzo 2015 dichiarando che «la situazione in Venezuela rappresenta una minaccia inabituale e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli U.S.A».
Visto come ti sei comportato, non possiamo non pensare alla decisione presa da Reagan, ormai trent’anni fa, di appoggiare le Contras nella guerra contro il Nicaragua Sandinista negli anni ’80. Questa decisione, che consideriamo vergognosa ed estremamente ipocrita, è anche una violazione flagrante del diritto internazionale: trattandosi di una minaccia dell’uso della forza contro il Venezuela e allo stesso tempo un’ incitamento ai tuoi scagnozzi venezuelani di continuare gli sforzi per destabilizzare il paese.
Dovresti sapere, caro fratello, che in America Latina esiste un sentimento crescente d’unità e solidarietà che attraversa tutta la regione. Nello stesso tempo, rigettiamo il tuo arrogante ordine esecutivo interventista, e ti auguriamo di voltarti verso Gesù, la fratellanza e la solidarietà; abbandonando una volta per tutte i demoni della cupidigia, della guerra e della dominazione planetaria.
Continueremo a pregare per te e per i tuoi cari.
Il tuo paese è il nostro mondo.
Miguel d’Escoto Brockmann, Prete Maryknoll, Nicaragua
La bandiera dei diritti umani, si sa, può essere tirata da tutti i venti e non è detto che il vento più forte ne scopra il lato veritiero. E così, il presidente di uno stato che si considera il gendarme del mondo dichiara, senza paura del ridicolo, che il Venezuela è “una minaccia straordinaria” per la propria sicurezza nazionale, e decide di emettere sanzioni contro il governo di Nicolas Maduro per presunte violazioni ai diritti umani. Come può un paese piccolo il cui esercito non ha mai aggredito nessuno minacciare gli Stati uniti? Qualunque essere senziente dovrebbe porsi la domanda, e poi chiedersi ancora: con quale credibilità può ergersi a paladino dei diritti umani un governo come quello Usa, promotore di guerre e barbarie, alleato e complice dei governi più liberticidi? L’ipocrisia risulta più evidente osservando il disinteresse per i dati provenienti dal Messico, un paese in cui scompare una persona ogni 90 minuti. Ecco quanto ha appurato Juan Mendez, relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura e altri tratti o pene crudeli, inumane e degradanti: in Messico, la tortura è generalizzata e viene applicata in un contesto di totale impunità. Recita il rapporto Onu: “La tortura e i maltrattamenti durante i momenti che seguono alla detenzione e prima del deferimento al giudice, in Messico sono generalizzati e avvengono in un contesto di impunità”. Il relatore ha visitato il paese tra il 21 aprile e il 2 maggio del 2014, dunque prima della scomparsa dei 43 studenti “normalistas”, attaccati dalla repressione congiunta di polizia e narcotrafficanti il 26 settembre del 2014. Un caso che ha commosso il mondo e che ha portato sotto i riflettori la terribile realtà delle scomparse in Messico e l’eliminazione degli oppositori politici. La relazione di Mendez dice che, nella pratica corrente della tortura “ è evidente la partecipazione attiva delle forze di polizia e di quelle ministeriali di quasi tutte le giurisdizioni, e anche quella delle Forze armate”, e che risulta anche “la tolleranza, indifferenza e complicità da parte di alcuni medici, difensori pubblici, giudici e procuratori”. Il relatore denuncia altresì che, soprattutto nelle prime fasi dell’arresto, le possibilità di preservarsi dalla tortura e dagli abusi e di chiedere “un’inchiesta rapida, imparziale, indipendente ed esaustiva sono minime”.
Non ce ne sarebbe a sufficienza per sanzionare il governo neo-liberista di Enrique Pena Nieto, grande amico degli Usa?
E che dire dell’Honduras, paese in cui dopo il golpe del 2009 contro il presidente Manuel Zelaya gli assassinii di oppositori politici e di giornalisti sono moneta corrente al pari del Guatemala dell’ex generale Otto Pérez Molina?
In tutta evidenza, quelli che gli Usa difendono, non sono “diritti”, ma interessi: interessi di classe, di rapina e di mercato, imposti con le guerre imperialiste che li alimentano. “La vera minaccia per il popolo degli Stati uniti è il suo governo”, ha detto Nicolas Maduro. Come dargli torto?
Washington difende gli interessi dei golpisti venezuelani, messi in carcere non per le loro idee, ma per atti concreti, per dei reati che, negli Usa e in Europa, sarebbero costati ergastoli o poco di meno. In Italia, in Spagna, in Germania, ne sanno qualcosa i movimenti rivoluzionari di ieri e di oggi. E gli Usa, non hanno forse tenuto in carcere per 16 anni i cinque eroi cubani e lasciato liberi gli eversori di Miami? E non rimane da oltre trent’anni nelle carceri Usa l’indipendentista portoricano Oscar Lopez Rivera? E l’Italia non ha forse messo in galera quasi 6.000 militanti della lotta armata di sinistra degli anni ’70-80? Non hanno forse torturato le democrazie italiana e spagnola e condannato a centinaia di ergastoli i militanti brigatisti e quelli baschi?
In Venezuela, il 27 febbraio del 1989, durante la rivolta popolare denominata il Caracazo sono state uccise e fatte scomparire circa 3.000 persone: ma non c’è stata condanna per l’allora governo Pérez che ha dato ordine di sparare sulla folla inferocita dalla fame e dall’esclusione sociale. “Mano dura contro gli incappucciati”, proclamava l’allora governatore di Caracas Antonio Ledezma… E nessuna condanna è stata emessa dagli organismi internazionali dopo il colpo di stato contro il legittimo governo di Hugo Chavez, nel 2002. Anche allora, Ledezma era della partita, insieme alla pasdaran degli Usa, Maria Corina Machado e all’altro golpista Leopoldo Lopez. Quest’ultimo, come hanno mostrato i documenti pubblicati da Wikileaks – il sito che ha reso noto il Cablogate -, è al soldo di Washington da vent’anni. Tuttavia, mentre lui ha potuto liberamente complottare in Venezuela, fino alle violenze dell’anno scorso, il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, ha dovuto rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per sfuggire all’ira di Washington. Quanto a Henrique Capriles, altro ex golpista, sobillatore delle violenze post elettorali dell’aprile 2013, oggi è più defilato, ma il programma che propone il suo campo non è meno insidioso.
E’ dunque il “diritto al golpismo” quello che gli Usa difendono, il diritto a sovvertire i governi non subalterni, il diritto a cancellare il cambiamento più profondo che abbia mai interessato il Venezuela: una rivoluzione per le classi popolari in un paese che custodisce le più importanti riserve certificate di petrolio al mondo.
Eppure, anche alcuni dirigenti della sinistra, in Europa e nell’America latina, hanno agitato la bandiera dei “diritti umani” come un’arma contro il Venezuela: in Spagna, Pablo Iglesias ha dichiarato di essere contrario alla detenzione di Ledezma; in Uruguay, il vicepresidente Raul Sendic (subito corretto dalle dichiarazioni dell’ex presidente Pepe Mujica) ha affermato che “non ci sono prove” delle ingerenze Usa in Venezuela; in Argentina, un candidato di sinistra alla presidenza, Jorge Altamira, ha difeso la ex deputata Machado e ha accusato di golpismo il governo bolivariano. Di tutt’altro tenore, invece, le dichiarazioni della presidenta argentina Cristina Kirchner, che ha ben chiara a portata del progetto reazionario perseguito dai poteri forti contro l’America latina progressista, dal Venezuela, all’Argentina, al Brasile. E tuttavia, in Europa e in Italia in particolare, si continua a parlare dell’esistenza di “due sinistre” latinoamericane: una, bollata come “caudillista” a cui, nell’eredità di Cuba, appartengono il Venezuela e i paesi dell’Alba. Un progetto da sanzionare e contrastare. Un’altra, più soft e accettabile, più simile alle tanto decantate democrazie europee, a cui apparterrebbero paesi come Uruguay e Brasile. Una sinistra da giocare in chiave antisocialista, anche se – all’atto pratico – risulta appartenere al campo delle relazioni solidali sud-sud. Ma, intanto, su questa scia e nel solco di Washington, il Parlamento europeo ha condannato il governo Maduro per le presunte “violazioni dei diritti umani” dell’opposizione.
Davvero la bandiera dei diritti umani non basta (e a volte non serve) per indicare un giudizio se non a patto di assumersi fino in fondo la propria scelta di campo. Il campo della borghesia è quello che, con un discorso analogo a quello pronunciato da Obama contro il Venezuela, nel 1980 ha condannato il Nicaragua sandinista alla barbarie dei Contras per bocca di Ronald Reagan. Il campo della borghesia ha dalla sua i grandi media e la loro lingua biforcuta, che capovolge i dati e il senso delle cose. E così, la Dea (l’antidroga Usa), con una mano favorisce il narcotraffico per pagare l’eversione contro il socialismo, con l’altra definisce narcotrafficanti gli stati come la Bolivia che rifiutano la sua tutela, o persegue con la stessa accusa le organizzazioni armate, come le Farc in Colombia, che lottano a fianco dei contadini e dei diseredati. E ora rivolge la medesima arma contro il Venezuela, benché abbia facilitato il processo di pace tra Farc e governo Santos fin dal principio. O appunto per questo.
L’altro campo, è quello di chi ha a cuore la libertà e la giustizia sociale, un binomio inseparabile e un termometro di civiltà. Il campo di chi riconosce il diritto inalienabile di un popolo a scegliere, in modo trasparente e consapevole, il cammino per realizzarle. Il campo di chi difende il diritto degli oppressi al proprio riscatto e non ha paura di farsene contagiare.
Pubblichiamo l’intervista al Presidente del Wallmapuwen, strumento politico delle popolazioni indigene del territorio Mapuche.
Traduzione di RaffaelePiras.
ci abbeveriamo delle lotte di altri popoli del mondo che sono referenti necessari delle resistenze per l’autonomia, come i Paesi Baschi, la Catalogna, la Palestina, il Kurdistan ed il popolo del Sahara Occidentale
Con i suoi 30 anni, Ignacio Astete Nahuelcoy presiede il partito politico chiamato, insieme ad altre forze, a conquistare lo statuto autonomo di tutti gli abitanti del territorio mapuche nel paese cileno. E’ nato nel comune di Saavedra nella regione della Araucanía, territorio Lafquenche, e si è laureato in Contabilità e Finanza dell’Università di La Habana, Cuba. Racconta la sua dirigenza studentesca nell’Università di LaFrontera de Chile e ci spiega che “Wallmapuwen (‘ciudadano del país mapuche’) è un movimento autonomista che è situato nel territorio del Wallmapu (‘paìs mapuche’), il quale si trova sotto il dominio dello Stato Cileno all’incirca dal 1885, ovvero dalla “Pacificaciòn dela Araucanía”. Questa, tuttavia, altro non fu che un’occupazione ed usurpazione di un territorio che fin a quel momento era di sovranità del popolo mapuche”, ed aggiunge che “Wallmapuwen è nata una decade fa (2005) e porta avanti la missione di fare esercizio del diritto all’autodeterminazione e del diritto all’autonomia che ci spetta come popolo. L’obiettivo è quello di ottenere l’amministrazione mapuche del suo luogo, con tutte le caratteristiche che possiede il territorio oggi. Il suo funzionamento interno è semplice, effettivo e democratico. Si basa su un consiglio direttivo orizzontale eletto dall’Asamblea General, ed allo stesso modo vengono risolte le sue politiche principali. Comanda l’assemblea. Esistono comitati comunali decentralizzati con piena capacità decisionale”.
Partite da un’analisi concreta della situazione reale del territorio?
Infatti. Per questo motivo il nostro movimento tiene anche in considerazione il fatto che il territorio è occupato non solo dai mapuche, ma anche da altre popolazioni, come quella cilena. Pensiamo dunque che i diritti collettivi di entrambi i popoli debbano stare a parità di condizioni.
“Somos una fuerza anticapitalista”
Qual è la differenza dello strumento Wallmapuwen rispetto alle altre iniziative politiche esistenti nel territorio mapuche che resiste?
“Non esiste altro movimento che partecipi alle elezioni e che sia situato nel territorio mapuche. Siamo l’unica organizzazione politica che reclama dal campo elettorale un territorio autonomo di amministrazione propria. Altra differenza è che noi rivendichiamo un territorio per tutti quelli che lo vivono, tanto per i mapuche quanto per i cileni. Per il resto dei partiti del sistema politico, i mapuche sono solo il fattore indigeno. Wallmapuwen è uno strumento che si allontana dai ghetti politici e che persegue l’obiettivo secondo cui ambo i popoli, mapuche e cileno, che hanno vissuto separati dal confronto continuo, possano vedersi come abitanti di uno stesso luogo, capaci di convivere rispettosamente”.
Riguardo le versioni politiche provenienti dal puro nazionalismo che, per ragioni storiche provenienti dall’oppressione dello Stato , si inalbera come caposaldo esclusivo per la liberazione ?
“L’identità nazionale esiste, certamente. Tuttavia, la nostra visione di nazione è democratica. Il nostro orizzonte è la radicalizzazione della democrazia. Non possiamo ne tantomeno vogliamo negare il diverso. Al contrario. Non parliamo del non-mapuche, parliamo del cileno. Non partiamo dall’esclusione. Nel nostro territorio ci sono mapuche e cileni in tutti gli ambiti della vita, e con loro condividiamo la vita stessa. Da questa realtà ineludibile, noi pretendiamo il principio dell’autonomia. Evidentemente ci sono conflitti con determinate persone e soggetti cileni, però l’immensa maggioranza della popolazione non si trova all’interno di tale conflitto.
Però l’accento è posto sul popolo Mapuche ovviamente…
Siamo stati oggetti di razzismo, criminalizzazione ed impoverimento dallo Stato cileno. Siamo i più castigati tra i castigati nel nostro stesso territorio. Siamo sottomessi economicamente, culturalmente, politicamente e militarmente. È in questo contesto basico che riconosciamo la coabitazione e l’inclusione dei popoli, sotto gli stessi diritti. E siamo rispettosi dei diritti umani e dei diritti cittadini di tutti quanti. Per questo non vogliamo fare proposte che schiaccino il cileno che vive con noi. Sarebbe un controsenso. Soprattutto, perché la maggioranza dei cileni che vive il territorio soffre i nostri stessi problemi: povertà, insalubrità e discriminazione”.
Cioè voi sostenete una prospettiva analitica che rivela le forme di dominazione globale e non solo del popolo Mapuche…
“Non siamo estranei al movimento del capitalismo mondiale ed ai suoi effetti nefasti in Cile. Non siamo estranei ai colpi sistematici inflitti al popolo lavoratore in generale. Il Wallmapu è vittima del capitalismo promotore di miseria, della dispersione del nostro popolo e della morte. Siamo contrari all’assoggettamento all’industria forestale ed all’insieme di progetti idroelettrici e termoelettrici che semplicemente deteriorano ancora di più la nostra pessima condizione di vita di mapuche e di cileno. Siamo parte delle relazioni sociali imposte dal capitalismo. Anche per questo siamo una forza anticapitalista”.
Lo scontro culturale
Qual è il programma Wallmapuwen ?
“Trasformare il paesaggio del Wallmapu dalla base. Attualmente siamo impegnati ad affrontare le elezioni municipali di fine 2016 come partito politico legalizzato, senza dover stipulare alleanze che potrebbero obbligarci ad attenuare aspetti fondamentali del nostro progetto. L’idea di vincere i comuni è relazionata con la promozione dei diritti da tutti gli spazi possibili. Già abbiamo raggiunto esperienza, per esempio, nel comune di Galvarino della provincia di Cautìn, nona regione, che consacriamo come primo municipio bilingue del Wallmapu e del Cile (impartizione formativa della lingua mapudungun). Abbiamo realizzato campagne con l’obiettivo che l’intendente dichiari tutta la regione dell’Aracaunìa come bilingue. Il contesto generale delle nostre lotte è che lo Stato cileno capisca una volta per tutte che non siamo un anello economico in più della sua strategia ed egemonia. È irrisorio il fatto che il nucleo centrale del Wallmapu sia uno dei territori più impoveriti del Cile e allo stesso tempo sia inchiodato dall’industria forestale, una delle forme di saccheggio che riporta al P.I.L. il più alto numero di dividendi, dopo l’estrazione mineraria. Questo deve finire”.
E politicamente ?
Il Wallmapu deve convertirsi in un territorio di decisione. Attraverso un progetto costituente, lottiamo perché la Costituzione tenga conto della realtà plurinazionale e plurilinguistica del paese. Nel nostro strumento politico non abbiamo ricette né modelli, però sappiamo che l’insieme della popolazione del Wallmapu deve poter definire quale sarà la propria Carta Fondamentale che disciplini democraticamente e partecipatamente il territorio. Analogamente, crediamo che nel Wallmapu debba realizzarsi una riforma agraria generale che ci riconsegni tutti i territori usurpati, tanto quelli rubati durante l’invasione spagnola, quanto la terra delle comunità contadine che attualmente soffrono una situazione di emarginazione. Miriamo alla sovranità alimentare in modo che anche i piccoli produttori cileni siano beneficiati”.
Perché istituzionalizzare la lotta autonoma politica mediante la costituzione di un partito legale?
“Perché attraverso uno strumento politico pretendiamo potenziare le richieste sociali e d’autonomia. Il partito non può mai essere fine a se stesso. Il suo obiettivo è legato alla liberazione delle forze sociali per le rivendicazioni. Il Wallmapuwen s’imposta come un catalizzatore in più del movimento popolare territoriale. Da qui siamo aperti a possibile alleanze con tutte e tutti quelli che credono in un Wallmapu libero, autonomo e sovrano. Così è stato fino ad ora e così sarà in futuro”.
A quali successi per il territorio ha collaborato in modo sostanziale Wallmapuwen?
“Abbiamo collaborato affinché la commissione di decentralizzazione presidenziale del Cile preveda che il Wallmapu si trasformi in un territorio autonomo distinto dal resto del territorio cileno. Noi fummo parte di questa discussione, indipendentemente se questa diventi poi realtà o meno un domani. Allo stesso modo, siamo stati parte di un amplio movimento che cerca l’ufficializzazione della lingua mapuche, del mapundugon. Dobbiamo smontare l’apartheid e l’esclusione della cultura dell’identità attraverso l’insegnamento e la diffusione della nostra lingua. Questo è ciò che sta accadendo nel comune di Galvarino. Abbiamo poi realizzato il 20 febbraio del 2015, nel contesto del giorno internazionale della lingua materna, una marcia di due mila persone per la rivendicazione all’intendente regionale dell’ufficializzazione del mapudungu. Il nostro messaggio è diretto all’esecutivo così che ci faccia sapere il suo giudizio”.
La solidarietà internazionalista
E l’internazionalismo del Wallmapuwen?
“Miriamo sempre e ci abbeveriamo delle lotte di altri popoli del mondo che sono referenti necessari delle resistenze per l’autonomia, come i Paesi Baschi, la Catalogna, la Palestina, il Kurdistan ed il popolo del Sahara Occidentale. Le loro lotte ci ispirano perché sappiamo che noi non stiamo inventando la ruota. Di questi popoli facciamo nostro il meglio della loro resistenza. In particolare in materia di scontro per l’ufficializzazione della nostra lingua, con i Paesi Baschi abbiamo sempre avuto una vicinanza fraterna e solidale”.
ANCORA SANZIONI CONTRO IL GOVERNO DI NICOLAS MADURO DA PARTE DI WASHINGTON.
Un ordine esecutivo della Casa Bianca dichiara “l’urgenza” per il “pericolo inabituale” che minaccia la sicurezza nazionale. Il presidente statunitense Barack Obama ha annunciato questo lunedi, che prenderà nuove misure contro il governo venezuelano per le “così dette” violazioni dei diritti dell’uomo e ha dichiarato l’urgenza nazionale a causa di rischi straordinari generati dalla situazione di questo paese che minaccerebbero la sicurezza degli Stati uniti.
Il Congresso degli Stati uniti aveva già approvato il 10 dicembre scorso delle sanzioni contro i funzionari venezuelani, e ratificate da Obama il 18 dicembre ma niente era stato fatto fino a questo lunedi giorno in cui la Casa Bianca ha diffuso i nomi delle persone colpite dalle sanzioni, tra le quali risultano 7 figure di spicco: Benavides Torres ex leader del Gnb, Gustavo Enrique González López, direttore del Servizio nazionale d’intelligence (Sebin) e presidente del Centro strategico per la sicurezza e la protezione della patria (Cesspa), Justo José Noguera Pietri, presidente della Corporazione venezuelana della Guyana (Cvg) e già comandante della Guardia nazionale (Gnb), Katherine Nayarith Haringhton Padron, procuratore a livello nazionale del 20esimo distretto venezuelano, Manuel Eduardo Pérez Urdaneta direttore della Polizia nazionale bolivariana, Manuel Gregorio Bernal Martínez a capo della 31esima brigata corazzata dell’esercito venezuelano ed ex direttore della Sebin e, infine, Miguel Alcides Vivas Landino, ispettore generale delle forze armate e già comandante della Redi. Il comunicato diffuso riporta: «la Casa Bianca è profondamente preoccupata dalle azioni del governo venezuelano tese a intimidire gli avversari politici» il documento si conclude con la richiesta di liberazioni di tutti i “prigionieri politici”.
Secondo gli Stati uniti, questi funzionari sarebbero implicati in faccende che violano i diritti umani, precisamente per aver fermato “il piano di uscita”(allusione alle dimissioni del presidente Maduro) durante le contestazioni putschiste svoltesi tra Febbraio e Maggio scorso nelle quali 43 persone sono state uccise, molte delle quali con un colpo d’arma da fuoco alla testa. In risposta a queste provocazioni si è costituito il “Comitato delle vittime delle guarimbas” per far conoscere al mondo la loro storia, occultata meschinamente dal resto dei media. Il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest ha dichiarato che “i funzionari dello Stato bolivariano che hanno violato i diritti dei cittadini venezuelani, non sono i benvenuti nel territorio, e che gli Stati uniti dispongono di strumenti per bloccare i lori assett e l’uso che fanno del sistema finanziario nordamericano”.
IL GOVERNO CUBANO SOLIDALE
Nella giornata di ieri si è espresso anche il governo rivoluzionario della Repubblica di Cuba, dichiarando: l’atto che qualifica il Venezuela come “paese minaccia” è arbitrario e aggressivo. Questo documento simboleggia una rappresaglia alle misure che il governo bolivariano ha adottato per difendere la propria sovranità di fronte alle ingerenze del Congresso degli Stati uniti. Come potrebbe il Venezuela minacciare gli Stati uniti? Considerando che il Venezuela è a migliaia di chilometri di distanza, non dispone di armi strategiche, e non impiega né risorse né funzionari per cospirare contro l’ordine costituzionale statunitense, questa dichiarazione appare poco credibile e rivela i veri obiettivi di chi l’ha emessa. Una tale esternazione, in un anno di elezioni legislative in Venezuela riafferma, ancora una volta, il carattere offensivo della politica estera statunitense. La gravità di questo atto esecutivo ha messo in allerta i governi dell’America Latina e quelli dei Caraibi, che, nel gennaio 2014 durante il 2° summit della Celac a l’Avana, hanno dichiarato la regione “Zona di Pace” e condannato tutti gli atti che possono destabilizzare il continente, dal momento che hanno già accumulato abbastanza esperienze di “interventismo imperiale” nel corso della loro stroria. Il governo rivoluzionario della Repubblica di Cuba riafferma di nuovo il suo sostegno incondizionato, e quello del suo popolo, alla Repubblica bolivariana, al governo legittimo del presidente Nicolas Maduro Moros e all’eroico popolo fratello del venezuela. Nessuno ha il diritto di intervenire negli affari interni di uno Stato sovrano né di dichiararlo, senza ragione, minaccia per la sua sicurezza nazionale. Così come Cuba non è mai stata sola, anche il Venezuela non lo sarà.
LETTERA DI FIDEL CASTRO
Anche Fidel Castro ha voluto ricordare ancora una volta il suo appoggio a Nicolas Maduro inviandogli una lettera che lo incoraggia e lo loda per il discorso sostenuto in risposta alle misure del governo degli Stati uniti: «Caro Nicolas Maduro, Presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela: mi congratulo con te per il tuo brillante e coraggioso discorso intrapreso per rispondere ai piani brutali del governo degli Stati uniti. Le tue parole passeranno alla storia come prova che l’umanità può e deve conoscere la verità».
Il mercoledì delle Narrazioni tossiche: L’editoriale del New York Times, datato 5 marzo 2015, ci presenta un Maduro sconclusionato e in affanno nel tentativo di arginare una crisi, a detta del fogliaccio nordamericano, figlia solo dell’inefficienza del governo bolivariano.
History is likely to record it as yet another self-inflicted wound by a leader whose relatively short time in power has been characterized by impulsive, erratic and vengeful behavior.
La strategia di governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro si affida sempre più alla ritorsione e allo scarico di responsabilità verso i capri espiatori, per i propri fallimenti. Approccio che nell’ultimo fine settimana ha raggiunto livelli grotteschi, con l’annuncio del presidente della riduzione forzata del personale dell’ambasciata statunitense a Caracas da 100 funzionari fino a 17, e la necessità per i cittadini americani di un visto per entrare in Venezuela.
In apparente risposta alla recente decisione all’amministrazione Obama di proibire ad alcuni funzionari venezuelani sospettati di violazione dei diritti umani di viaggiare negli Stati Uniti, Mr. Maduro ha svelato la sua lista personale, dichiarando l’ex presidente George W. Bush, l’ex vice presidente Dick Cheney e l’ex direttore della Cia George Tenet, personae non gratae.
Maduro inoltre ha segnalato che i diplomatici statunitensi rimasti in Venezuela hanno l’obbligo di dichiarare ogni appuntamento, presumibilmente con chiunque, al suo governo. La manovra intende combattere l’”aggressione imperialista”, ha detto sabato ad una folla di sostenitori durante uno sconclusionato quanto esuberante intervento.
Il teatrino di Maduro replica ai dimostranti antigovernativi, scesi in piazza nella città occidentale di San Cristobal, per denunciare la morte di un ragazzo quattordicenne, ucciso da un colpo d’arma da fuoco la scorsa settimana durante una manifestazione. Denigrare i nordamericani durante un momento di crescente malcontento e dell’intensificarsi della crisi economica forse potrà galvanizzare la base nel breve periodo, ma alla lunga può solo danneggiare il suo governo. E la storia presumibilmente registra questo atteggiamento come l’ennesimo autogol di un leader il cui breve operato è stato caratterizzato da un comportamento impulsivo, incoerente e vendicativo.
La richiesta del visto di entrata in Venezuela per gli statunitensi potrebbe diventare ancora l’ennesimo disincentivo per i cittadini del più importante partner commerciale del Venezuela, a investire nel paese. Smembrare lo staff diplomatico dell’ambasciata Usa a Caracas, potrebbe parimenti rendere più difficoltoso per i venezuelani viaggiare, e fare affari, negli Stati Uniti.
Ad ogni carcerazione ed espulsione di altri capri espiatori, i limiti di Maduro verranno inevitabilmente messi a fuoco.
In questo nuovo editoriale per Caracas ChiAma (che arriva eccezionalmente il martedì) Geraldina Colotti disegna una mappa immaginaria, che va da un sacchetto di farina in vendita a Napoli alle manifestazioni delle donne in Venezuela
Iniziamo raccontando due episodi, accaduti in Italia, che rispecchiano la realtà del Venezuela: la realtà del sabotaggio, dei complotti e di quella che il governo chiama, aragion veduta, la “guerra economica”, scatenata contro il socialismo dall’impresa privata e dal grande capitale internazionale. A Napoli, in qualche negozio capita di poter comprare la “Harina Pan”. Si tratta di un tipo di farina di mais precotto ove Pan sta per “Producto Alimenticio Nacional”, prodotto alimentare nazionale. Un alimento che piace molto ai venezuelani e che viene prodotto dalla grande impresa privata Polar. La Harina Pan non basta mai a coprire la richiesta e, nei discorsi dell’opposizione, diventa il simbolo della presunta penuria di alimenti. Ora, il dato singolare è che la farina risulta essere stata importata in Italia dalla… Colombia. E come mai, se non ce n’è abbastanza per il consumo del paese, se – come hanno strillato i vertici di Polar – produrla costa troppo, ce n’è così tanta da “esportarla” in Colombia e da lì in Europa? E tornano in mente quelle immagini scattate negli empori di Cucuta, in Colombia, ben forniti di ogni merce che scarseggia invece inVenezuela. Cucuta è una città di frontiera, ed è una delle mete principali del contrabbando di alimenti: si fa incetta di beni di consumo venduti a prezzo calmierato in Venezuela e li si rivende oltreconfine. Un business più lucroso del narcotraffico. Per la cronaca, come ha scritto la rivista Forbes che classifica i super milionari, tra questi risultano ben tre grandi imprenditori venezuelani: ma non erano stati debilitati dal socialismo? E invece risulta che hanno accresciuto i propri profitti, pur avendo dovuto sottostare alle leggi che garantiscono la tutela del lavoro e quindi rinunciare a qualche boccone della torta. I super ricchi appartentono al gruppo Cisneros – attivo nel campo della comunicazione, delle tecnologie, oltreché in quello dei beni e dei servizi -; al gruppo finanziario internazionale Banesco; e appunto alla Polar, principale produttore di bibite ealimenti, diretto da Lorenzo Mendoza.
Per ridurre il fenomeno dell’accaparramento truffaldino e la compulsione all’acquisto dettata dalla propaganda mediatica, il governo Maduro ha cominciato a installare in tutti i supermercati circa 20.000 scanner per il controllo delle impronte, ed evitare così che le persone tornino più volte a comprare. Intanto, quando i militanti segnalano episodi di sabotaggio, il governo occupa i grandi supermercati insieme alla popolazione e cerca di raddrizzare le storture. Una fatica di sisifo. Il progetto dichiarato dell’opposizione è quello di minare la fiducia della popolazione nel progetto bolivariano, mostrandosi più adatti a governare. Dove non riesce con i colpi bassi, cerca di arrivare con il sabotaggio economico e la guerra psicologica. Intanto, si attende che il Cne fissi la data delle elezioni: secondo Unasur potrebbero tenersi a settembre. Finora, però, l’unica cosa certa è la data delle primarie (3 maggio l’opposizione, 28 giugno il chavismo). Importanti novità caratterizzano il percorso di approfondimento che sta portando avanti il Psuv, che dovrà presentare il 50% di donne e farspazio ai giovani con identico spirito innovativo. Una spinta al futuroevidenziata dalla grande vitalità dell’8 marzo, che ha mostrato il camminopercorso dalla libertà delle donne e il loro potere di rappresentanza. Per giustificare che le sue primarie non si svolgeranno su tutto il territorio nazionale, e avallare gli inciuci interni, la coalizione opposta – la Mud – ha detto che risultano troppo costose (1,7 milioni di dollari) e che non se lo può permettere. Nonostante i fiumi di denaro che arrivano dagli Usa? Nonostante la ricchezza che possiedono i sempiterni candidati? E vale ricordare i documenti del sito Wikileaks sulle relazioni speciali della Cia intrattenute con Leopoldo Lopez, attualmente in carcere e sotto processo. E così, i militanti di base gridano alla truffa. E il Psuv rincara: “Stanno facendo il giro degli imprenditori per vendere a caro prezzo le poltrone”.
Che il piano per sovvertire l’ordine costituito sia da tempo in gestazione, è deducibile anche da un altro episodio, capitato a chi scrive qualche mese prima che scoppiassero le guarimbas. Camminando per le strade della capitale succede di parlare con la proprietaria di un negozio, che dice di avere amici in Venezuela: amici benestanti, precisa, dai quali gradirebbe farsi ospitare come ha già fatto in precedenza. “Però mi hanno detto di aspettare, che tra qualche mese silibereranno di Maburro”. Il nome del presidente Maduro viene storpiato così perché burro significa asino, ma la commerciante non lo sa e crede sia il suonome vero.
Niente di nuovo, si dirà, la borghesia difende sempre i propri privilegi con ogni mezzo. Lo si è visto nel Cile di Allende e poi nel Nicaragua minato dai Contras. Lo si è visto nei golpe “istituzionali” compiuti contro l’allora presidente dell’Honduras Manuel Zelaya e contro Fernando Lugo in Paraguay. Lo si è visto contro Chavez e ora contro Maduro. Com’è accaduto durante gli attacchi a Cuba, colpisce la sproporzione di mezzi impiegati contro un piccolo (ma petrolifero) paese. Colpisce la sfacciataggine con cui un Vargas Llosa mente sapendo di mentire, a dispetto di fatti e di evidenze. La borghesia si toglie i guanti bianchi e si schiera. Contro il “cattivo” esempio che viene dal socialismo bolivariano. Contro la Grande Paura.
Al campo che la contrasta, il compito di non farsi rubare il futuro.
L’Argentino che ha rivoluzionato Cuba: inventore e profeta del terzomondismo.
“Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia”. Ernesto Che Guevara, Da Opere, v. 3, pt. 1. a cura di Carlos Varela, Feltrinelli
“Noi ci schieriamo a fianco di coloro che vogliono mutare al tempo stesso la condizione sociale dell’uomo e la concezione ch’egli ha di se stesso”. Jean-Paul Sartre, Présentation de Les Temps Modernes (1945).
“La conquista è fatta con la violenza; il supersfruttamento e l’oppressione esigono il mantenimento della violenza, e di conseguenza la presenza dell’esercito (…) Il colonialismo nega i diritti umani a uomini che ha sottomesso con la violenza, che mantiene con la forza della miseria e dell’ignoranza e quindi, come direbbe Marx, in una condizione di “sub-umanità”. Nei fatti stessi, nelle istituzioni, nella natura degli scambi e della produzione, è iscritto il razzismo”. (J.-P. Sartre, Portrait du colonisé, 1957)
Il filosofo francese J.-P. Sartre, affascinato ed incuriosito dagli accadimenti rivoluzionari cubani e dai suoi protagonisti, decise di recarsi nell’isola caraibica e stilarne un vasto ed approfondito reportage. Perciò scrive, il 9 luglio del 1960, sulla rivista France-Soir un resoconto del suo viaggio a Cuba: “Il più grande scandalo della rivoluzione cubana non è quello di aver espropriato i piantatori ma quello di aver messo dei bambini al potere. Da anni i nonni, i padri e i fratelli maggiori aspettavano che il dittatore fosse morto per dargli il cambio: si andava avanti per promozione di anzianità. In previsione del giorno in cui sarebbe cambiata la squadra, i partiti si prendevano l’incarico rischioso di proclamare pubblicamente il loro attaccamento al parlamentarismo. Tutto andava bene quando, un bel giorno, i cadetti arraffarono il potere e lasciarono intendere che lo avrebbero conservato. Niente vecchi al potere! Infatti, non ne ho visto neanche uno tra i dirigenti…”
In principio, la rivoluzione è stata meravigliosa; “Un grande spettacolo“, l’ingresso dei liberatori in città, “una marea capillare, i condottieri, Cesare Borgia,il Rinascimento…”, ha scritto Virgilio Piñera, felice di trovare per le strade de L’Avana scene della leggenda biblica e della grande pittura italiana[1]. In un secolo in cui i grandi comandanti non erano più concepibili, la barba era divenuta il recupero di un po’ di “vecchia epicità”. Lo stile della rivoluzione era decisamente romantico: “Era come se il fantasma di Cortez [sic] fosse apparso nel nostro secolo sul cavallo bianco di Zapata“, ha osservato Norman Mailer nella sua “Lettera aperta a Fidel Castro”[2]. Cronache, storie, poesie, testimonianze aumentano l’elenco delle reminiscenze: Robin Hood, conquistatori barbari di Roma… Sollevazioni lente come corrugamenti geologici, deboli ricadute che diventano presto febbrili. Ed improvvisamente una folla invincibile le cui prime file cadono in ginocchio nel sangue, colpite da raffiche di mitragliatrici. Allora la folla scoppia in migliaia di fuggiaschi. Torna la pace per poi riorganizzarsi con più audacia ed ardore. Di nuovo si ricomincia con assemblee, rivolte, sommovimenti… In questo piccolo saggio ci orienteremo simbolicamente anche sulle tracce di Cortez e di Pizzarro, alla scoperta degli imperi decaduti del sole e dell’oro. L’America Centrale e del Sud, i Caraibi, resteremo incantati dalle rovine delle civiltà morte, i monti ed i misteri dell’America indiana.
Il mito di Ernesto “Che” Guevara (giovane medico argentino ammalato di asma cronica) come emblema della Rivoluzione, nasce il 25 novembre 1956, quando da Tuxpán (Messico) parte con un vecchio cargo fradicio, soprannominato Granma (una contrazione di “grand mother” = nonna), in direzione di Cuba, con 82 volontari di cui ne sopravvivranno ben pochi (solo 17). Lo stesso Ernesto “Che” Guevara si salvò per puro miracolo poiché, durante il tragitto, ebbe dei forti e violenti attacchi d’ asma, fu aiutato e sostento da Gino Doné Paro, partigiano ed antifascista italiano, l’unico italiano a bordo del cargo. Ernesto “Che” Guevara già sfinito dal viaggio e dalla crisi di asma scatenata dal mal di mare, trascina il suo corpo debole e provato in guerriglia: diventa così il medico della prima spedizione rivoluzionaria guidata dal Comandante Fidel Castro. Un violento attacco da parte dell’Esercito Regolare Cubano (al servizio del dittatore Batista) colse di sorpresa i pochi e provati guerriglieri. É il panico: il battesimo di fuoco. Sotto una grandine di pallottole gli uomini corrono senza sapere dove. Alcuni verso la piantagione, altri verso il bosco, altri ancora in direzione del tagliafuoco. Il “Che” correndo ed ansimando, scopre che nella fuga qualcuno aveva lasciato cadere una cassa di pallottole. Il “Che” pensa che le pallottole siano l’oro della guerra e che quel tipo ha appena abbandonato un tesoro, ma lui era già carico del suo zaino di medicinali. Il “Che” era il medico della spedizione: si trovò di fronte ad un dilemma. Fu il momento decisivo della sua vita. Con una spallata, gettò lo zaino pieno di medicine e si carica sulla schiena la cassa di pallottole e corre, barcollando, verso la piantagione. Da ora in poi, più che un medico, sarà un combattente: le sue lunghe ed affusolate mani di intellettuale, medico e scrittore da allora premeranno il grilletto dei revolver, dei fucili mitragliatori e lanceranno bombe. In quel momento, il dottor Guevara, decise di stare dalla parte di coloro che uccidono e vengono uccisi. Al suo fianco corre il compagno Albertosa che, si lascia cadere, si rialza, e come un colossale bambino vomita grumi di sangue dal naso e dalla bocca, come un pazzo urla: “mi hanno beccato”. Il Che resta disteso, una pallottola gli attraversa il collo ed avverte un colpo al petto, come un pugno sferrato da un invisibile pugile. Il “Che” galleggia nel limbo e per minuti, ore, penserà come morire nel modo migliore. Il suo primo battessimo di fuoco, nel mondo della guerriglia, lo trasformano in un soldato indomabile ed in uno stratega implacabile: diventerà l’emblema della Rioluzione. Nel suo reportage “Tempesta sullo zucchero“, il filosofo francese Sartre parla di “invasione di Cuba da barbari“: questo trionfo del giovane barbuto che si era liberato dei suoi genitori e che aveva rotto da tempo con i loro valori obsoleti. Il filosofo francese ha attribuito il “disordineradicale dei rapporti umani” nella Rivoluzione cubana con l’associazione dei giovani in rivolta provvisti di barba, uno dei brand definitivi del radicalismo del XX secolo: “Sulla popolazione molto civilizzata, un pò indebolita dell’isola, una nuova barbarie si è scagliata; la gioventù che avanzava mascherata. Gli indigeni vengono trattati bene dai nuovi conquistatori, ma questi mantengono le distanze e si sposano fra loro, niente fraternizzazione. Molte rivoluzioni possono lamentarsi come le persone: “Non ho avuto una giovinezza, io!”. Le poverine sono state troppo accelerate e troppo presto: per necessità; c’erano delle classi da saltare, degli esami da passare; le malattie infantili le divoravano. Cuba, fino a quel momento, ha avuto questa fortuna: non ha avuto bisogno di lesinare sul suo inizio; fortunatamente: non lo avrebbe fatto senza distruggere; dal 1957 al 1959, la rivoluzione della gioventù ha creato una nuova avventura che si vive da quattordici mesi: la giovinezza di una rivoluzione. Domandiamoci cosa può significare per un giovane potere, poter essere esercitato da giovani. Da parte mia, esaminerò solo tre questioni essenziali:come la nuova impresa plasma questi adolescenti per farne l’esecutivo che deve portarla felicemente a termine…”[3] Jean-Paul Sartre raggiunge Cuba in compagnia di Simone de Beauvoir il 22 febbraio 1960: si trattiene per quasi un mese. Si tratta del suo secondo viaggio nell’ isola, il primo, avvenuto nel 1949, sembra distante anni luce. Gabriela Paolucci ne “L’Incontro tra Sartre e la Rivoluzione Cubana”[4] afferma: “… Il volto dell’Avana e dell’intera Isola, fino a poco prima territorio esclusivo di yacht-club nordamericani, spiagge private, casinò, bordelli e quartieri esclusivi per i bianchi – è radicalmente mutato. La dittatura di Batista è stata sconfitta dall’Esercito Ribelle e la giovane Rivoluzione cubana sta vivendo la sua affascinante “luna di miele”. Alcune delle misure rivoluzionarie più significative cominciano a fare i primi passi in un’atmosfera di euforia collettiva: l’abolizione del latifondo e la Riforma agraria, elaborata nelle sue linee essenziali da Che Guevara; la campagna di alfabetizzazione; la Riforma urbana, con cui la distribuzione delle abitazioni, l’abbattimento del prezzo degli affitti, dell’elettricità e del telefono. Fidel Castro, il cui ruolo alla guida dell’ isola si sta già chiaramente delineando in mezzo ai conflitti tra tendenze moderate e radicali della rivoluzione, è a capo del governo. Il prestigio di Che Guevara , il giovane medico direttore del Dipartimento di industrializzazione dell’Inra e presidente del Banco National e sta crescendo, dentro e fuori l’Isola. Ma è anche il momento in cui comincia a prendere corpo lo scontro con gli Stati Uniti, come Sarte e Simone De Beauvoir hanno modo di toccare con mano il 4 marzo, quando un atto di sabotaggio fa esplodere nel porto della capitale il cargo francese “La Coubre”, provocando duecento morti. L’ adesione di Sartre all’ esperienza cubana è senza riserve. Ai suoi occhi Cuba rappresenta una nuova speranza di fronte ai drammatici fallimenti dei paesi dell’ Est. La strada che ha imboccato la prima rivoluzione dell’ America Latina sembra possedere tutti i requisiti per evitare gli esiti catastrofici di quel “mostro sanguinante che dilania se stesso” che è il “socialismo” dei regimi stalinisti (come aveva scritto in “In fantasma di Stalin”, nel 1957). La “democrazia diretta” è il cuore di questa giovane e originale rivoluzione, impermeabile all’ ideologia “sclerotizzata” e “intorpidita” che “dissolve gli uomini reali in un lago di acido solforico”. La sua forza risiede nell’ assenza di dogmatismo: nel fatto che essa forgia la propria ideologia nel farsi della prassi rivoluzionaria…” .[5]
ll filosofo francese, dopo i suoi incontri con la gioventù cubana, l’incontro con il rivoluzionario Che Guevara e Fidel Castro, decide di peregrinare per tutta l’isola: il risultato fu un’adesione entusiasta al movimento Rivoluzionario Cubano.
Un incontro felice, dunque, quello tra l’intellettuale che si batte a fianco dei popoli del Terzo Mondo, il critico radicale del marxismo sclerotizzato e dello stalinismo, lo scrittore che, convinto che “la parola è azione“, impegna tutto il proprio ascendente per “far sì che nessuno possa ignorare il mondo e dirsene innocente” (Che cos’è la letteratura? 1949) – e la giovane Rivoluzione cubana che incarna ai suoi occhi la possibilità di realizzare il magico momento della “fusione” e della spontaneità rivoluzionaria, dove “ciascuno è legato a tutti gli altri in un’impresa collettiva” (Critique de la raison dialectique). Ma l’idillio non durerà che poco tempo. Le fasi successive dell’esperienza cubana, stretta nella morsa asfissiante dell’ aggressione imperialistica e della “protezione” sovietica, metteranno sempre più a rischio la sua originalità e il suo iniziale spirito utopico. Sartre a sua volta, non si occuperà più dell’Isola caraibica e della sua sorte, se non per esprimere una generosa solidarietà (per esempio nel messaggio al Congresso Culturale dell’ Avana nel 1968), o per prendere posizione contro alcuni episodi particolarmente gravi di repressione della libertà d’espressione, come nei confronti del “caso Padilla“[6]. L’entusiasmo che il filosofo francese dimostra verso Cuba, non dovrà stupire nessuno: Cuba, subito dopo il Vietnam, ha rappresentato (e rappresenta tutt’ora) la realizzazione concreta e reale dell’ utopia terzomondista: la prova storica che perfino uno stato in miniatura, povero ed insignificante (sotto il profilo economico) può sconfiggere la più grande potenza economica internazionale e gestirsi autonomamente (pur con tutte le difficoltà del caso). Del resto Sartre è sempre stato un autentico anti-imperialista: da sempre impegnato per l’indipendenza Algerina, ha sempre condannato il colonialismo e la sua falsa coscienza. Il colonialismo, scrive sulle pagine di Les Temps Modernes: “… è la nostra vergogna, si fa beffe delle nostre leggi o le riduce ad una caricatura; ci infetta col suo razzismo. Obbliga i nostri giovani a morire loro malgrado per i principi razzisti che combattevamo dieci anni fa (“Le colonialisme est un système“, 1956)[7]. Sartre oltre tutto mostrerà un’attenta consapevolezza dell’ estrema durezza delle condizioni rivoluzionarie, una durezza che non risparmia nessuno: “La rivoluzione è una medicina per cavalli: una società si spacca le ossa a colpi di martello, distrugge le proprie strutture, sconvolge le istituzioni, trasforma il regime della proprietà e ridistribuisce i suoi beni, orienta la produzione rispetto ad altri principi, tenta di aumentarne al più presto il tasso d’ incremento e, nel momento stesso della distruzione più radicale, cerca di ricostruire, con tutta la sua forza, come con trapianti ossei un nuovo scheletro; il rimedio è estremo, spesso bisogna imporlo on la violenza: Lo sterminio dell’avversario e di qualche alleato non è inevitabile, ma è prudente prepararcisi. Dopo questo, niente garantisce che il nuovo ordine non sarà schiacciato dal nemico dall’interno o dall’esterno, né che il movimento, se vincitore, non sarà deviato dalle sue lotte e dalla vittoria stessa“.[8] Quando Sartre con il “Manifesto dei 121“, proclama il diritto all’insubordinazione per le riserve mobilitate nella guerra algerina, si cui è estensore e primo firmatario con Blanchot e Breton, il Pcf lancerà un attacco senza esclusione di colpi contro gli ideatori e i firmatari. L’analisi del colonialismo come sistema, di cui smonta i meccanismi politici, economici e ideologici, si coniuga all’implacabile denuncia dei misfatti che l’esercito francese compie durante l’occupazione ed Algeria, delle torture e delle umiliazioni fisiche e morali inflitte agli algerini. Esse “hanno in comune la capacità di rivelare questa cancrena (…), l’esercizio cinico e sistematico della violenza assoluta. Saccheggi, stupri, rappresaglie esercitate ai danni della popolazione civile, esecuzioni sommarie, ricorso alla tortura per strappare confessioni o informazioni” denuncia dalle pagine di Les Temps Modernes (Sartre, 1959a). [9] Contro il silenzio e la complicità dei francesi, ai quali governo e media si guardano bene dal raccontare la verità di quel che accade in Africa, Sartre lancia strali vigorosi: “Nascondere, ingannare, mentire: è un dovere, per gli informatori della Metropoli: l’unico crimine sarebbe quello di turbarci”. Comparando la guerra d’Algeria all’Olocausto, scrive: “Sapevamo tutto, e soltanto oggi siamo in grado di comprenderlo: perché anche noi sappiamo tutto. (…) Oseremo ancora condannarli? Oseremo ancora assolverci?” (Sartre, 1957a).[10] Il proletariato ed il sotto-proletariato terzomondista individua nel materialismo la dottrina della propria rivoluzionarietà, della propria liberazione dalla alienazione sociale: ciò significa almeno che il materialismo ha un contenuto “atto” a mobilitare le forze rivoluzionarie. Ma non vuol dire che esso sia la “verità” del marxismo. Se intraprendiamo un esame rigoroso dell’atteggiamento rivoluzionario, dobbiamo innanzi tutto renderci conto della situazione del proletariato in quanto oppresso e della possibilità del superamento della oppressione attraverso la prassi liberatrice: questo, prima ancora di proclamarci materialisti-storici. L’unico modo di smascherare il mito è di ricondurlo alle operazioni originarie, le analisi delle quali deve portare alla sostituzione del mito stesso con una filosofia che sia concreta traduzione delle esigenze rivoluzionarie. Occorre ripercorrere il cammino attraverso il quale il materialismo è diventato il “fatto”, vedere come le esigenze rivoluzionarie si sono solidificate in esso perdendo il loro significato originario: “Forse, se qualcuno le libera dal mito che le schiaccia e le maschera a se stesse, esse tracceranno le grandi linee di una filosofia coerente che abbia, in confronto al materialismo, la superiorità d’ essere una descrizione vera della natura e delle relazioni umane“[11]
Sartre si pone d’ora innanzi all’interno di questo progetto di una coerente filosofia della rivoluzione che egli comincia a ritenere realizzata nel 1960 con la Critica della Ragion Dialettica; il modo di approccio è un atteggiamento generico-costitutivo in grado di usare il “rasoio di Occam” ai fini di una ricostruzione fenomenologica. In questo caso si tratta di “tagliare” la falsa assolutizzazione del materialismo. La fondazione di una filosofia rigorosa che cancelli “tutti i miti” per ritornare al campo originario e autentico della esperienza rivoluzionaria e per mostrare come la azione e la comprensione della realtà si unifichino nell’unica direzione dell’uomo, non può non ricondurci alle operazioni di chi “in situazione” agisce da Rivoluzionario. La genesi deve partire dalla situazione dell’ oppresso al fine di ricostruire il movimento dialettico, che poi tutti gli uomini possono riconoscere e contribuire a realizzare. Il materialismo è un mezzo e non un fine: nello stesso momento in cui è posto esso viene superato. La filosofia “coerente” è infatti quella della trascendenza e della libertà. É proprio attraverso le operazioni dell’oppresso nella situazione rivoluzionaria che scopriamo la dialettica e il suo carattere totalizzante. All’oppresso è stata tolta la dignità di uomo: sopra di lui valgono i diritti e le leggi della classe dominante. Così il rovesciamento della situazione è innanzi tutto legato alla comprensione della situazione stessa e alla azione he dialetticamente ne consegue, se l’oppresso mira a una reale liberazione (e non a una falsa libertà interiore). In secondo luogo il rovesciamento rivoluzionario tende costituitivamente a superare il presente in vista di un futuro diverso e tende ad abbracciare tutti gli uomini. L’oppresso rende universale la propria causa in quanto non vuole sostituire i diritti che abbatte con altri diritti e con altre leggi, ma soltanto con un riconoscimento delle libertà reciproche e quindi con un auto-riconoscimento della specie umana. Il presente viene vissuto ed agito alla luce del futuro e di un progetto anti-naturale in quanto negazione della “naturalità” della situazione esistente. Si tratta, dice Sartre significativamente, di decollare da una situazione per negarla e per assumere una visuale complessiva: si tratta di pre-sentire e di inventare la società senza classi per sostituire il regno dei fini al regno delle leggi. Ha allora ragione Marx quando parla di un “al di là del comunismo” e anche Trozkij quando sostiene la “rivoluzione permanente“. In definitiva abbiamo reintrodotto la soggettività dando ad essa il compito di protagonista della dialettica stoica, che è dialettica del superamento e del progresso. Sarte incontrerà per la prima volta il rivoluzionario argentino Ernesto “Che” Guevara il 10 luglio 1960, su France-Soir scriverà: “… Guevara è considerato un uomo di grande cultura e questo si avverte: non ci vuole molo per accorgersi che dietro ogni sua frase c’è una riserva d’oro. Vi è un abisso, però, che separa questa ampia cultura, queste conoscenze generali di un giovane medico che per inclinazione, per passione, si è dedicato allo studio delle scienze sociali, dalle materie e dalle tecniche indispensabili per un banchiere statale. Egli non parla mai di queste cose, se non per scherzare sui propri cambi di professione; ma si avverte l’intensità del suo sforzo: lo tradisce d’ogni lato, meno che nel volto tranquillo e disteso. Innanzi tutto era insolita l’ora del nostro appuntamento: la mezzanotte. E avevo pur avuto fortuna, perché i giornalisti e gli ospiti stranieri vengono ricevuti con cortesia e lungamente, ma alle due ed alle tre del mattino. Per giungere al suo ufficio dovemmo attraversare un ampio salone che aveva i mobili solo lungo le pareti: alcune sedie ed una panca. In un angolo c’era un tavolino con un telefono. Su tutte le sedie la stanchezza assaliva i soldati; quelli che erano di guardia e, ancor di più, quelli che dormivano, tormentati fon nei sogni dall’incomodità della loro posizione… Si aprì una porta. Simone De Beauvoir ed io entrammo e quell’impressione comparve. Un ufficiale dell’ esercito ribelle, coperto da un basco, mi aspettava: aveva la barba ed i capelli lunghi come i soldati dell’ingresso, ma il volto limpido e sereno mi parve mattiniero. Era Guevara. Usciva dalla doccia? Certo era comunque che aveva cominciato a lavorare molto presto il giorno prima, aveva fatto colazione e cena nel suo ufficio, aveva ricevuto dei visitatori ed altri ne aspettava dopo di me. Sentii la porta chiudersi alle mie spalle e persi il ricordo della mia precedente stanchezza insieme alla nozione di tempo. In quell’ufficio non entra la notte: a quegli uomini di guardia, compreso il principale tra loro, dormire non sembra una necessità naturale, ma un’ abitudine della quale i sono più o meno liberati. Non so quanto riposino Guevara e i suoi compagni. Suppongo che ciò dipenda dalle circostanze e sia il rendimento a decidere: quando si abbassa, allora si fermano… Quei giovani attribuiscono un culto discreto all’energia, tanto amata da Stendhal. Non si creda però che ne parlino, che ne ricavino una teoria. Vivono l’energia, la praticano, forse la inventano: si dimostra negli effetti, ma essi non pronuncino una parola a riguardo. La loro energia si manifesta.”
A partire da Cuba si sviluppa, nelle coscienze degli occidentali più progressisti, di un sentimento di debito impossibile da cancellare, nessuno meglio di Sartre, nella sua prefazione ai “Dannati della Terra” di Franz Fanon[12] , l’avrebbe suscitato e fondato in diritto. Dei crimini commessi contro i popoli colonizzati, ora in via di sviluppo, siamo tutti colpevoli o complici, fino a quando starà in nostro potere il farli cessare. Questa colpevolezza giace in noi inerte, estranea, e bisogna ugualmente che la riprendiamo a nostro carico e che avviliamo noi stessi per poterla sopportare. “Abbiate il coraggio“, egli scrive, “di leggere Fanon: per questo primo motivo che vi farà vergogna e la vergogna, come ha detto Marx, è un sentimento rivoluzionario“.[13]
Così la sinistra-occidentale, dal 1960 fino ai nostri giorni, fu presa da un appetito pantagruelico per il mondo, s’ingozzò i tutti gli angoli del globo, il Terzo Mondo non era altro che il doppio del nostro. Il terzomondismo compì, in campo pratico e politico, quella deviazione passionale sempre denunciata dai moralisti , l’amore innamorato di se stesso, l’amore compiacente, incapace di crearsi un complemento diretto. Il militante terzomondista colleziona sommosse, rivolte, rivoluzioni, concedendosi l’ebbrezza dell’infinito. Anche se l’altrimenti e l’altrove cui egli fa appello sono ancora troppo attaccati a questo basso mondo, che rifiuta. L’autentica alterità suppone un rapporto con una realtà sociale infinitamente lontana dalla propria, senza che tale lontananza distrugga il rapporto, e senza che il rapporto distrugga la lontananza. Non abbiamo il diritto di vivere in pace finché un solo bambino, continuerà a soffrire: i militanti terzomondisti diventano così i fautori di un universalismo astratto. L’iniziatore di questa forma di terzomondismo resta senz’altro Jean-Paul Sartre: “Ognuna delle mie scelte ha allargato il mio mondo. Di modo che non considero più le loro implicazioni come limitate alla Francia. Le lotte con cui m’identifico sono lotte mondiali” .[14]
Nel dicembre del 1967 Jean-Paul Sartre viene intervistato da Prensa Latina sul Tribunale Bertrand Russel e sul ruolo sociale e politico del rivoluzionario Che Guevara, e dichiara: Voi conoscete la mia ammirazione per Che Guevara. Penso che effettivamente quest’uomo non sia stato solo un’intellettuale, ma l’uomo più completo del suo tempo. É stato il combattente, il teorico che ha saputo trarre dalla battaglia, dalla sua stessa lotta e dalla suae sperienza, la teoria per continuare a lottare“[15]. Fino ai primi decenni del secolo XX, barba e baffi erano indici di borghese rispettabilità in una società che considera la maturità come valore supremo. Stefan Zweig dice nella sua autobiografia che nell’era prima guerra mondiale “si è verificato quello che oggi è quasi incredibile, e cioè che i giovani costituisce un ostacolo per qualsiasi carriera, e la vecchiaia un vantaggio.” Con la strage del 1914, questi valori sono stati invertiti: prima la giovinezza era considerata un elemento di sospetto, invece oggi i giovani hanno imparato a far pesare il loro “valore”.
[1]Virgilio Piñera scrisse sul trionfo della Rivoluzione Cubana nel periodico Revolución e nel suo supplemento Lunes de Revolución
[2] Nel 1961 Mailer scrisse una lettera aperta a Fidel Castro, dicendo “ci stai dando speranza“.
[3] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 184
[4] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 7.
[5] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 8.
[6] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 10.
[7] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 11
[8] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag.90
[9] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 12
[10] Visita a Cuba, Jean-Paul Sartre, introduzione di Gabriella Paolucci, Massari Editore, pag. 12
[11]Materialismo e Rivoluzione, in “Temps Modernes” (poi ripubblicato in Situations II), J.-P. Sartre, Gallimard, Paris, pag. 303
[12] Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, Maspero, Paris, 1961. Traduzione Italiana: I Dannati della Terra, Einaudi, Torino, 1962.
[13] Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, Maspero, Paris, 1961. Traduzione Italiana: I Dannati della Terra, Einaudi, Torino, 1962., pag. 11.
[14] Interista a Tito Gerani, 1974, citata da Simone De Beauvoir in La Cérémonie des adieux, Gallimard, Paris, 1981. Traduzione in italiano: La cerimonia degli addii, Einaudi, Torino, 1983.
[15] “El Che fue el hombre más completo de su tiempo”, estratto da un’ intervista a Prensa Latina, pubblicato in Bohemia, n. 51, 22 dicembre 1967, p. 45. Traduzione di Antonella Marazzi.