Venezuela. Intervista all’analista belga Thierry Deronne, direttore della Scuola di cinema popolare.
“Un giornalista di sinistra, in occidente, quando descrive le cose buone della rivoluzione bolivariana si sente sempre in dovere di premettere che lui però non è dogmatico, che fa anche delle critiche, e magari confonde la libertà di impresa con la libertà di stampa”. Così dice al manifesto Thierry Deronne. Attivista libertario e analista dei media di origine belga, Deronne ha una lunga esperienza nel settore dell’audiovisivo. Dopo una permanenza in Nicaragua, tra il 1986 e l’88, si è trasferito in Venezuela, dove ha realizzato diversi documentari e, nel ’95, ha fondato la Scuola di cinema popolare. Durante il governo Chavez ha ideato varie televisioni comunitarie ed è stato vicedirettore della televisione pubblica Vive Tv. Attualmente, è direttore del Centro de Formacion en Television Comunal alla Fundacion Escuela Popular de Cine, Television y Teatro (Eplacite).
Qual è lo spirito e il progetto del Centro che dirige?
Il nostro lavoro è quello di formare collettivi, movimenti sociali e abitanti delle comuni alla scrittura e alla narrazione decolonizzata dalla tv commerciale per farne dei moltiplicatori, nel paese e in tutto il continente. L’obiettivo è anche quello di contribuire al dibattito pubblico sulla democratizzazione nel controllo delle frequenze radiotelevisive e allo sviluppo di nuovi paradigmi della comunicazione che rafforzino il potere popolare. Stiamo ripensando la televisione comunitaria per come l’avevamo intesa nel 2000: nella prospettiva di una nuova tappa dello sviluppo economico-produttivo in Venezuela, quello dello stato comunale, del mutualismo e delle comuni autogestite. La ricerca di nuovi modi di produrre informazione accompagna la tensione verso un nuovo modo di produrre e il sorgere di nuove relazioni sociali.
Qual è la situazione dei media, com’è regolata l’informazione?
Dalla fine degli anni ’90, con l’arrivo di Hugo Chavez al potere, vi sono stati alcuni importanti cambiamenti. Tra il 2000 e il 2010 sono state approvate la Ley organica de Telecomunicaciones (2000), la Ley de Responsabilidad Social de Radio y Television (2004) e la Ley de Responsabilidad Social de Radio, Television y Medios Electronicos, che amplia la legge del 2004, approvata nel 2010. La costituzione boliviariana del 1999 ha aperto il cammino al pluralismo dell’informazione garantito dallo stato. Un percorso che, sul piano legislativo, si è messo in marcia anche in altri paesi dell’America latina, in maniera direttamente proporzionale alla democratizzazione del rapporto tra stato e società. Penso all’Argentina, all’Ecuador, anche all’Uruguay e ora alle possibilità aperte con il secondo mandato Rousseff in Brasile, dove la situazione è ancora simile a quella del Venezuela pre-Chavez. Da noi, in questi anni, tutti i mezzi di informazione sono aumentati, sia quelli privati che pubblici, che comunitari. Sia per quantità che per audience, i media continuano a essere in maggioranza sotto il controllo del settore privato, ma almeno il telespettatore ha un’offerta diversificata che non trova nei canali commerciali. Inoltre, grazie al Fondo di responsabilità sociale, creato per finanziare i progetti degli artisti, questi non sono obbligati a vendere i loro talenti all’industria delle telenovelas come avviene in Brasile.
Negli anni in cui lei è stato vicedirettore, la Tv di stato funzionava in base all’orizzontalità, alla partecipazione diretta e alla parità di stipendio per tecnici e giornalisti. Com’è la situazione ora?
Dal mio punto di vista, si è perso molto di quel progetto originale, principalmente a causa della guerra mediatica che ci impone una formazione accademica tradizionale che adesso impera anche nei media comunitari. La spinta per rendere più plurale l’informazione è meno forte. Per esempio, non si parla più di suddividere in tre terzi il controllo dell’etere – pubblico, privato e comunitario – come hanno fatto in Argentina e in Ecuador. Questo mantiene in condizione di inferiorità i due ultimi settori, che invece sono quelli fondamentali alla garanzia di un vero tessuto democratico e al suo equilibrio. Un’altra carenza è la mancata applicazione delle leggi. E così, i media privati hanno organizzato una gigantesca campagna di falsi allarmi che, all’inizio di gennaio, ha indotto i cittadini a comprare l’equivalente di tre mesi di consumo. Un contesto di destabilizzazione che in parte ricorda il clima che, nel 1973, ha portato al colpo di stato contro Allende in Cile. Inoltre, Conatel, l’autorità preposta al controllo delle frequenze, non fa rispettare abbastanza la regola che impone ai media alternativi di trasmettere il 70% di produzione comunitaria di contenuti e di organizzare corsi di formazione per gli abitanti del territorio. Molti spazi hanno perso il loro potenziale alternativo e rischiano di trasformarsi nella copia in sedicesimo dei media commerciali. Come ha detto Ignacio Ramonet, l’egemonia dell’informazione commerciale continua a inquinare l’ecologia della comunicazione e a condizionare l’elettorato. Così vi sono stati passi indietro nei contenuti di genere e le femministe si sono fatte sentire. Non può esserci vera democrazia senza democrazia dei media. Nel socialismo bolivariano, si dovrebbe arrivare al 60% di frequenze attribuite ai media comunitari, un 29% a quelli pubblici e l’1% a quelli commerciali.
Secondo l’opposizione c’è invece una deriva autoritaria in cui lo stato compra i media privati per controllarli e silenziare il dissenso. La tendenza sarebbe in corso anche in altri paesi come l’Ecuador, che si richiamano al Socialismo del XXI secolo. E’ così?
In Venezuela, sui giornali, in tv o per strada si sentono costantemente le critiche più accese al governo, e nessuno va in galera o perde il posto di lavoro. Anzi, come ha detto il cineasta Oliver Stone, in Venezuela i media privati si possono permettere cose che mai potrebbero fare negli Stati uniti, compresi gli appelli alla violenza e gli attacchi personali. Detto questo, la Ley resorte che regola la comunicazione funziona come in gran parte degli altri paesi del mondo, negli Stati uniti e in Europa: nessuno può istigare all’omicidio del presidente, istigare alla violenza, denigrare le donne, incitare all’odio razziale. Il rischio è piuttosto quello che per contrastare la guerra mediatica – articolata in modo massiccio a livello locale e internazionale — si chiuda la strada allo sviluppo del potenziale alternativo; che lo stato si lasci cooptare o ricattare dal settore privato o si lasci influenzare nelle sue decisioni dalla sfera mediatica. In Venezuela non c’è uno stato omogeneo, le forme del vecchio stato “borghese”, per dirla con le parole del presidente Maduro e dei militanti di base, continuano a esistere. Per formazione, abitudine o estrazione sociale molti funzionari non credono o non facilitano la partecipazione popolare. Per questo, mi viene da ridere quando i grandi media parlano di «totalitarismo bolivariano in marcia». Bisogna invece rafforzare la lotta contro il latifondo mediatico, che accompagna quella dei movimenti sociali come i Senza terra in Brasile, in tutta l’America latina. Abbiamo contro un potere mediatico talmente concentrato che cerca di controllare idee e desideri della popolazione sia negli spazi nazionali che a livello globale, e che esercita una pressione ideologica su qualunque lotta sociale. Lo dico con rispetto, ma si è mai chiesta perché un giornalista di sinistra dalle vostre parti se deve parlar bene della rivoluzione bolivariana si sente in dovere di premettere che lui non è dogmatico e che è anche capace di critica? La libertà di stampa, in Europa, coincide con la libertà d’impresa e con una falsa concezione del pluralismo, tipica del giornalismo asservito al potere.